Presentazione di Piero Magi
Mi sono chiesto perché sia stato scelto Maurizio Naldini per la stesura di un libro che, grazie anche al suo illustre sponsor cioè il Lions Club Firenze, è destinato a diventare (anzi lo è già diventato almeno ai miei occhi che ne vedono la prima “stampata” ancora “non ripulita”, come si dice in gergo) un libro di vicende e di costume fiorentine e toscane destinato, senz’ombra di esagerazione o di enfasi, a rimanere un libro di storia. Cinquant’anni della nostra vita, mezzo secolo di vittorie e di sconfitte, di speranze e di delusioni, di politica a volte concreta, più spesso di chiacchiere, di figure pubbliche che sarebbero state bene su un dipinto rinascimentale o di personaggi altrettanto pubblici che a regalarli a un paese del sottomonte o, meglio, a buttarli via non si sarebbe fatto il danno di un centesimo (oggi l’espressione si può riusare anche se, i centesimi non li usa nessuno. Con buona pace dell’onorevole Prodi).
Io li ho vissuti giorno per giorno questi cinquant’anni di vita, li ho visti prima come cronista a fianco di un giovane Naldini che emanava bravura come d’estate il sudore, e poi li ho visti da spettatore privilegiato, da direttore de “La Nazione”, il giornale nel quale il Naldini ancora scrive, perché io, da capo della baracca (ed era grande, la bracca, a quel tempo) di bracci destri ne avevo in teoria cinque o sei ma quello su cui mi potevo appoggiare e al quale chiedevo l’impossibile era sempre lui, Maurizio, da me scientificamente sfruttato come un extracomunitario senza documenti.
E il risultato, questo libro voglio dire, è tra i più sconcertanti. Io non credo, sono pronto a rischiare la vita che tutto il materiale che Naldini ha profuso in questo suo volume sia frutto di una ricerca fatta esclusivamente nei vecchi scaffali del suo giornale. Nemmeno a dire una preghiera. Una volta che fu necessario cercare una foto di Bartali che aveva finito, se non ricordo male, cinquant’anni mi portarono un’immagine del corridore che sembrava avesse fatto la prima comunione da qualche giorno, perché, dissero, di foto non ce n’erano più. Ricordo che mancavano addirittura degli interi fascicoli.
E a Naldini che è successo? Gli è entrata in testa tutta la storia di Firenze dal 1953 al 2003? Tutta questa profusione di date, di avvenimenti, di personaggi ? Forse i motivi saranno diversi, anzi lo saranno di certo. Ma è un fatto che un giornalista di classe come Naldini vive col suo tempo, ne è distaccato perché è regola cha la sera al giornale bisogna pur dare conto di quello che è successo ( o che è accaduto in qualche parte del mondo, se sei, come usa dire, in trasferta) ma la vita per lui non corre e scivola via: la vita si ferma nella coscienza e nella fantasia di chi la deve seguire e su lei fissa persone e avvenimenti.
Il problema è raccoglierli: è ciò che ha fatto Maurizio Naldini, attraverso tutto ciò che gli ha permesso questa dettagliata, precisa, addirittura stizzosa ricostruzione di fatti e di argomenti. E’ una suddivisione che richiede una partecipazione totale, un impegno severo, addirittura un amore segreto ma irrinunciabile. E’ così che si riscrive una vicenda che è politica, umana, culturale: mettendo amorosamente al loro posto le tracce stampate di quelle vicende e rivivendole sempre, come se si dovesse personalmente accompagnare la vita della città e sistemarla in parallelo alla nostra. C’è sempre rimasto qualcosa dentro Naldini, la sera, della vita cittadina. Eccolo il grande giornalista.
C’era da ricomporre una diecina di avvenimenti che hanno fatto di questa città, la città che vediamo: grandi cose e cose miserabili. Sono rimaste dentro la coscienza dell’autore di questa prezioso volume che il Lions Club Firenze può vantarsi di avere ideato e realizzato. Non si spiega altrimenti l’esame necessario, attento, approfondito, per stabilire una volta per tutte la vicenda non sempre felice e non sempre sventurata di questa città che tutto il mondo conosce. Io il mondo l’ho girato in lungo e in largo prima di sedermi sulla faticosa poltrona e di torturare il povero Naldini. Ma ogni volta che ho detto che ero di Firenze ho visto i denti allegri dei finlandesi e quelli bianchissimi degli africani.
Il Lions ha fatto l’onore di chiedere a me di presentare questo libro che invece si presenta da sé: a suo modo prezioso perché nulla vi è esaltato o sottaciuto. E io ne sono rimasto, mi si creda, profondamente onorato. Dirò di più: profondamente commosso. Io sono stato spesso in Casa Lions, sempre accolto con amicizia vera e festosa. La stessa che avevo personalmente con Valentino Giannotti, del quale ebbi anche l’onore di un premio intestato a suo nome. Oggi, alla mia avanzata età, mi accorgo che nulla è cambiato di quella amicizia. Sono rimasto anch’io come diceva lui scherzando: “cattolico, apostolico, fiorentino”.
ACCADDE A FIRENZE
di Maurizio Naldini
Non sono altro che memorie, per questo che facciamo fatica a ricomporle. Sono le vicende degli ultimi cinquant’anni, non più cronaca e non ancora storia, che rischiano di sfuggirci come sabbia. I documenti che le testimoniano hanno scarso valore, ci sembrano poca cosa, forse sono fin troppo abbondanti. Gli uomini che le testimoniano ci raccontano la loro verità, difficilmente ci appaiono capaci di una sintesi, filtrano le loro verità attraverso il ricordo.
Eppure, sono proprio gli ultimi 50 anni che condizionano il nostro presente. Gli errori, le scelte, le intuizioni compiute in questo arco di tempo, hanno disegnato in grandissima parte il nostro oggi.
E’ il motivo di questo album, il suo perché. Torniamo indietro di mezzo secolo alla ricerca delle nostre radici. Le più vicine. Una attualità sfumata nel ricordo, un passato recente ma già dimenticato.
L’occasione, per cominciare questo nostro viaggio fra i ricordi, è la nascita di un club che portò a Firenze l’esperienza cominciata 40 anni prima negli Stati Uniti. L’11 aprile del 1953 nasceva infatti il Lions Firenze con una cena sociale al Grand Hotel. A proporlo, a volerlo, era stato l’avvocato Pier Giovanni Canepele, un personaggio ben noto nel mondo dello sport, e del tennis in particolare, negli anni in cui le nostre racchette erano fra le più quotate al mondo. Forte delle sue conoscenze, dei suoi rapporti internazionali, l’avvocato Canepele raccolse un gruppo di amici e propose loro la creazione del Lions fiorentino, il quarto in Italia. Alla prima riunione erano in 18, tutti professionisti e imprenditori, uomini ben noti in città per il ruolo che avevano svolto, e svolgeranno ancora, per la ripresa dopo la catastrofe della guerra.
Erano, in ordine alfabetico: Carlo Barbaia, Direttore del Banco di Roma. Domenico Benini, Agente di viaggio “Globus”, Corrado Biancalani, Commercialista. Giuseppe Bonetti, Albergatore “Hotel Astoria” Pier Giovanni Canepele, Avvocato. Pindaro Carapelli, Industriale delle sementi. Ivan Esente, Oculista. Carlo Francesco Fedeli, Avvocato. Ugolino Golini, Notaio. Giuseppe Gristina, Direttore della Selt Valdarno. John Hawley, Vice Console USA. Emilio Kraft jr. e Gerardo Kraft jr.,Albergatori rispettivamente dell’”Hotel Excelsior” e del “ Grand Hotel”. Rupert Maino, Buyer Export – Import. Antonio Marzotto, Industriale tessile. Francesco Padoin, Magistrato. Guido Postiglione, Direttore Associazione Industriali. Ildebrando Weber, Industriale della paglia.
Il loro compito, l’obiettivo che si erano dato secondo il codice d’onore importato dagli Stati Uniti, era quello di “servire” gli altri. “Essere solidali con il prossimo mediante l’aiuto ai deboli, il soccorso ai bisognosi, la simpatia ai sofferenti”. Ma tutto questo, dimostrando “ con l’eccellenza delle opere e la solerzia nel lavoro, la serietà nella vocazione professionale.” In pratica, una visione della vita e della società secondo la più limpida etica liberale. Dove i migliori devono continuare ad esserlo perché il mondo ha bisogno di loro. Ma nello stesso tempo devono impegnarsi ad aiutare gli altri, a fare in modo che crescano fino a raggiungere traguardi più ambiziosi, e in ogni caso devono farsi carico di chi non ha la forza, o la fortuna, di incamminarsi da solo nei quotidiani confronti della vita.

La consegna della Charter Night al Grand Hotel 11 aprile 1953
Un evento del genere, nella Firenze del 1953, poteva sembrare poca cosa. E così apparve agli occhi dei fiorentini, che avevano ben altre cose delle quali doversi occupare in quei giorni. Eppure l’evento aveva un grande valore. Il luogo, il tempo, la filosofia che spingeva 18 uomini noti a riunire in qualche modo le loro forze, erano tutt’altro che casuali.
Il luogo, prima di tutto. Nei momenti di crescita, e di crisi, Firenze aveva sempre fatto appello ai privati perché l’aiutassero a gestire la cosa pubblica. Se altrove “pubblico” e “municipale”, o “statale”, erano come sono oggi pressoché sinonimi, in Firenze non lo sono mai stati in epoca storica, e forse la grandezza della nostra città si deve proprio a questo. Repubblica o Granducato che fossero, sempre l’impegno sociale era demandato, in grandissima parte, alle iniziative dei privati. Che potevano essere “uomini buoni ed onesti” ai quali affidare l’Opera del Duomo, o quella di Santa Croce, o di Santa Maria Novella. Oppure corporazioni, o compagnie delle fede come la Misericordia. O ordini religiosi. Resta il fatto che queste realtà, non altre, avevano costruito i monumenti a cominciare dalla Cupola, o gli ospedali, o gli ospizi, e perfino le banche. La città ha sempre avuto fiducia nella capacità di agire dei privati per pubblico interesse. Diremmo, oggi, nelle forze “laiche”, ovvero quelle fuori dai partiti, dalla politica attività. La città ha sempre creduto nella democrazia e quindi nei rappresentati eletti, ma ancor più ha creduto nella capacità dei migliori di “servire” e mettersi a disposizione della comunità. Non è un caso che ancor oggi , a Firenze, il numero di coloro che si impegnano in opere di volontariato sia più numeroso che altrove.
Il tempo, ugualmente, non fu casuale. L’Italia, ed in particolare la Firenze del 1953, conobbe il risveglio dopo la tragedia della guerra. Fu quello l’anno della ripresa. Se infatti, fino a quella data ancora dovevamo lottare per garantirci il cibo, con quell’anno il prodotto interno lordo comincia a volare al ritmo di 8 punti l’anno. L’industria decolla e lascia indietro l’agricoltura anche per numero di addetti. Si profilano nel 1953 le nuove alleanze politiche, i progetti strutturali che ci avrebbero portato al boom degli anni Sessanta. L’Italia si risveglia, si scrolla dalle spalle il passato recente, supera definitivamente le divisioni, e si mette in marcia per diventare un Paese occidentale e moderno.
Tutto questo fu ben percepito dai fondatori del Lions Firenze. Che seppero scegliere il luogo e il tempo giusto per fare la loro proposta di vita, che fu anche una proposta di società. Fino a quel giorno, di solidarietà si era parlato solamente in termini marxisti. Sotto il profilo etico, erano evidenti i richiami al messaggio evangelico. Da quel giorno si cercò di far conoscere, attraverso le opere, una cultura che puntava forse agli stessi obiettivi ma in modo assolutamente diverso. Era la cultura che aveva permesso agli Stati Uniti di diventare, già allora, il primo Paese occidentale. E’ stata quella cultura, che parte da una grande fiducia nell’uomo e nel progresso, che avrebbe permesso all’Italia di compiere i progressi che conosciamo.
Ciò accadde soprattutto a Firenze. Con il continuo intrecciarsi della storia locale e di quella del Lions Firenze. I protagonisti del club li ritroviamo ai vertici delle iniziative più rilevanti di questi anni. Le intuizioni, i progetti, che nascevano durante le serate del Club, trovavano poi eco, e spazio, nelle vicende ufficiali cittadine.
Cinquanta anni del Lions Firenze e 50 anni della nostra città, in molte circostanze sono una cosa sola. E così ci piace raccontarli, anche se tratteremo, per comodità di lettura, le specificità del Lions all’inizio di ogni capitolo, lasciando poi che scorra in assoluta libertà, il racconto delle vicende cittadine.
Gli argomenti che abbiamo scelto sono dieci. Vicende simbolo di quanto è successo in mezzo secolo nei più svariati settori. Che sono quelli delle grandi opere strutturali, della cultura e dello sport, delle iniziative commerciali e di immagine, della società nel suo insieme. Ci auguriamo che, alla fine, il lettore non solo abbia ottenuto il quadro del “Com’eravamo”, ma ancor più abbia chiaro il faticoso percorso che è stato compiuto, grazie ad uomini eccellenti, dalla Firenze umiliata dalla guerra fino a quella di oggi.
CAPITOLO 1
1953: Come eravamo
Avevano lo smoking e il fiocco nero, gemelli sui polsini, colletti inamidati, sui capelli un po’di brillantina per renderli più neri e più splendenti. Le signore vestivano di lungo, qualche gioiello, la stola di pelliccia sopra le spalle nude. L’ambiente, il Grand Hotel, era quanto di meglio, di più internazionale per lo meno, offrisse la Firenze di allora. E gli intenti, le idee, erano di “servire”. Nei fatti si trattava di aiutare un ‘Italia ancora ferita dalla guerra a sollevarsi.
A riunirsi per la “Charter night”, ovvero la serata inaugurale del loro Lions Club, furono in 18, tutti provenienti dalla professioni o dall’industria. Nomi ben noti, in città e non solo. Personaggi che erano abituati a fare i conti con le cose, pragmatici. E per il loro incontro scelsero una sera di aprile. Con la primavera che, timidamente, già si affacciava sui Lungarni.
Così nacque a Firenze , l’11 aprile del ’53, il primo Lions della Toscana, il quarto in Italia. Una realtà che fuori dalle istituzioni, dalla politica, dagli schieramenti, come semplice club privato composto da privati cittadini, si sarebbe inserita da protagonista nella vita cittadina.
La storia di questo Lions è dunque anche la storia di Firenze degli ultimi cinquant’anni. E questo volume sta a testimoniarlo. Gli avvenimenti dei quali tratteremo nei singoli capitoli, sono infatti temi sui quali il Lions Club Firenze si impegnò attivamente. O con i propri soci, che furono in gran parte protagonisti delle vicende cittadine, o con i propri incontri, le proprie serate, durante le quali sindaci e cardinali, scrittori, urbanisti, capitani di industria, vollero raccontare i loro progetti e le loro difficoltà per realizzarli.
Di questi temi, pressoché infiniti, ne abbiamo scelti alcuni che ancor oggi, sicuramente, sono nella memoria collettiva. Temi, eventi, situazioni, che in qualche modo condizionano l’oggi. Sembrerà strano, al lettore, rendersi conto che alcuni dei problemi di mezzo secolo fa sono ancor oggi sul tappeto. Sembrerà assurdo, che altri di quei problemi si siano perfino aggravati. Perché le soluzioni sono state peggiori del male, o perché nessun medico è intervenuto al letto del paziente, nonostante che la malattia fosse sotto gli occhi tutti.
Diciotto signori riuniti al Grand Hotel una sera d’aprile di mezzo secolo fa. Facile a dirsi, a immaginarsi oggi. Ma cos’era l’Italia. Cos’era Firenze? E quindi cos’era il mondo di quei giorni?
Il 1953 ancora portava impresse nelle facciate delle case, nei volti e nei cuori della gente, le ferite della guerra. Eppure, per molti aspetti, segnava anche l’inizio di una ripresa più convinta, il rialzare la testa, la fine delle umiliazioni, della fame perfino. Si mettevano in gioco, finalmente, le idee e i progetti che avrebbero permesso da allora a pochi anni la concreta ripresa. Si gettavano le premesse per il “boom” economico degli anni Sessanta, così come piacque chiamarlo alla televisione che muoveva in quegli anni i primi passi.
Quando i 18 fondatori del Lions si riunirono per la prima volta, Stalin era morto da poco più di un mese, il 6 di marzo. E le masse, in gran parte, ancora lo piangevano come un santo, ateo, che aveva combattuto per il loro riscatto. In Italia circa 13 abitanti su cento erano semplicemente analfabeti. E la TV era ancora in prova, perché avrebbe cominciato ufficialmente a trasmettere, poche ore al giorno, solo col gennaio dell’anno dopo. Un gioco o poco più lo si pensava, quando passeggiando per le vie del centro, a Firenze come altrove, si vedeva uno schermo dentro un mobile di legno, che trasmetteva una serie di cerchi in bianco e nero, ondeggianti, tremanti, fino a trasformarsi in righe bianconere al passaggio di un tram, e subito riprendevano la forma. “Prove di trasmissione” e niente più.
Cresceva a dismisura la popolazione che ormai superava i 43 milioni di abitanti. La nascite erano 860mila l’anno, 320mila i matrimoni, le separazioni circa 4mila, un decimo dei divorzi che registriamo oggi. Non era ancora conclusa la guerra di Corea. Solo a giugno sarebbero cominciate le trattative di pace per un conflitto che aveva fatto temere la terza guerra mondiale e richiamato, in un posto lontano, troppo per le conoscenze geografiche di allora, oltre un milione di soldati americani.
I nostri miti appartenevano al cinema o allo sport. Nel primo caso eravamo tutti innamorati di Rita Hayworth, mentre si affacciava sulla scena l’incredibile Marilyn Monroe. Una foto che la ritraeva con la sottana lievemente alzata, un colpo di vento magistrale costruito sul set, divenne in poco tempo l’immagine del sesso. Nessuno parlava in certi casi di “malizia”, di “complicità”, di “ammiccamenti”. Tanto meno di linguaggio dei sensi o di erotismo. Bastava intravedere un ginocchio e l’immagine diventava hard. Non c’erano mezze misure nell’Italia di allora.
Per lo sport c’era solo da scegliere in una grande messe di campioni. Il ciclismo era ancora in testa nelle preferenze degli italiani. E per ringraziare i tifosi, Fausto Coppi vinse il Giro d’Italia di quell’anno. Lo scudetto toccò all’Inter, Internazionale si chiamava in quei giorni, ma già all’orizzonte si intravedeva una grande Fiorentina, quella di Befani e del dottor Bernardini.
Il Festival di Sanremo era appena nato. Si pensava che, con le canzoni, si potessero far tornare i turisti nella Riviera di Ponente, così com’era stato nei ruggenti anni prima della guerra. Per prima la Versilia aveva avuto un’idea analoga, ma non ci aveva creduto più di tanto e i liguri l’avevano preceduta nell’impresa.
Quell’anno, il Festival, era stato vinto da Carla Boni e Flo Sandon’s con “Viale d’Autunno”. Al secondo posto era arrivata Nilla Pizzi che cantò le gesta e le sofferenze di un immigrato col suo“ Campanaro”. Al terzo posto arrivarono a pari merito le coppie Teddy Reno _ Achille Togliani e Gino Latilla _ Giorgio Consolini. Furono questi ultimi a portare sulla scena del vecchio Casinò una canzone che avrebbe avuto successi imprevedibili. Si chiamava “Vecchio scarpone”. E da sola stava a significare come la guerra fosse ancora vicina, ma nello stesso tempo si avesse una gran voglia di allontanarla dalla memoria, e relegarla una volta per tutte su in soffitta.
Il dollaro valeva 625 lire e sembravano tante. E in fondo lo erano se si pensa che mille lire di allora varrebbero oggi 25 mila. Un operaio, in quegli anni, ne guadagnava circa 43mila. E ne pagava 4 per il biglietto del tram, altrettante per il giornale, 20 per il caffè, 45 per un chilo di pane, 75 per un litro di vino, 120 per uno di pasta, 400 per un chilo di carne, 20 per un litro di benzina.
Gli italiani andavano in bicicletta, questo è chiaro. La Vespa stava per arrivare, ma ancora non si era mossa dagli stabilimenti della Piaggio. In compenso si viaggiava in Topolino. Mentre i più ricchi _ pochi _ potevano permettersi un’Alfa 1900 che costava 2milioni e 300mila lire. Oppure la Fiat 1400 o l’Aurelia della Lancia, che proprio agli albori degli anni Cinquanta fu chiamata a sostituire la mitica Ardea.
Qualcosa però stava cambiando, in profondità, anche nell’economia. Per la prima volta, gli addetti all’industria _ circa il 34 per cento della forza lavoro _ avevano superato di qualche decimo il numero di addetti all’agricoltura. La mezzadria ancora dominava nelle nostre campagne, ma le ciminiere, quasi tutte giù nelle vallate, cominciavano a distruggere il paesaggio, a modificare i rapporti sociali, a creare una nuova cultura dove gli stessi concetti di spazio e di tempo avrebbero avuto un’altra dimensione. Il paesaggio secolare delle nostre campagne veniva ridisegnato. Da strade, case, qualche ciminiera. E intanto, si faceva largo un settore che fino ad allora aveva avuto spazi marginali nell’economia. Era il terziario, che avrebbe sempre di più richiamato l’attenzione dei sociologi, una categoria di studiosi che all’epoca muoveva i primi passi, ma nel disinteresse generale.
Proviamo a immaginarla la città di allora. Poche, rispettatissime le auto, a fare slalom fra le verghe del tram. Schiere di biciclette e di carretti. Al mattino, da Porta Romana, arrivavano dopo l’alba i contadini, con i ciuchi carichi di verdure da portare al mercato. Nelle piazze i ragazzi giocavano al pallone, ed i vigili urbani avevano come compito primario quello di inseguirli se rompevano un vetro o una vetrina. Nei negozi non c’erano confezioni di alcun tipo. E le massaie riempivano direttamente le capaci borse della spesa con la pasta o i fagioli, in certi casi avvolti in un cono di carta gialla. Erano gli anni della guerra fredda, anzi della guerra alle porte. E ad ogni scricchiolio delle difficili relazioni internazionali si temeva che potesse scoppiare. Gli americani, nel ’52, avevano sperimentato la prima bomba H. E questo, si sperava, poteva tener buoni i loro nemici nello scacchiere internazionale. Eppure, nell’ignoranza assoluta delle masse, proprio in quegli anni avvenivano le scoperte che avrebbero condizionato , anzi, disegnato il nostro presente.
Nel 1951 era stata costruita in laboratorio la prima pillola anticoncezionale. Nel ’53 James Watson e Francis Crick avevano individuato la struttura a doppia elica del DNA. Era stata perfino clonata una rana. Mentre nel ’54, ormai alle porte, Giulio Natta avrebbe sintetizzato il propilene dando il via ad un’era che all’inizio fu accolta con sollievo, quella della plastica. Al comico Bramieri il compito di pubblicizzarla, ogni sera in Tv, con Carosello.
E la politica? Dominava l’Italia, avvolgeva le menti degli italiani. Il settimo governo di De Gasperi si sarebbe concluso il 25 giugno del 1953. Amintore Fanfani, che da lì a poco ne avrebbe ricevuto il testimone era ancora ministro all’agricoltura e foreste – poi passò agli interni _ mentre Luigi Gui e Mariano Rumor erano dei sottosegretari. Il problema era la governabilità. La maggioranza assoluta per la Democrazia Cristiana era ormai un ricordo. E la difficoltà consisteva nello scegliere le alleanze.
Alcuni fra i notabili DC puntavano ad un accordo con le destre, coi missini ed i monarchici. Altri, come il giovane Fanfani, intravedevano come unico spazio un accordo con la sinistra.
Per tentare di risolvere il problema, il 21 gennaio del 1953, De Gasperi aveva fatto approvare una legge che prevedeva un premio del 15 per cento di seggi al partito che avesse conquistato il 50 per cento più uno dei voti validi. Per le sinistre fu la “legge truffa”. Ci furono rivolte in tutta Italia. Per giorni, anche a Firenze, la camionette della polizia cercarono di disperdere la folla. Intervenne perfino la cavalleria. La giovane democrazia italiana, visse lunghe giornate di paura.
Alle elezioni di giugno, su 30 milioni di aventi diritto al voto, se ne presentò alle urne una percentuale del 93,8. La Democrazia Cristiana ebbe il 40 per cento, il 22 toccò ai comunisti, il 12,7 ai socialisti. In pratica a nessuno toccò il premio di maggioranza e
la difficoltà a governare era evidente.
Eppure, in quell’anno, accadevano cose che avrebbero permesso, di lì a poco, di rendere l’Italia un paese capace di guardare senza più complessi, i grandi dell’Occidente. Fu nel ’53, infatti, che Enrico Mattei portò sulla scena mondiale la sua creatura, l’ENI, mise in allarme le “Sette sorelle” del petrolio, e per la prima volta si aprirono, forse sarebbe meglio dire “ furono socchiuse”, le dogane fra alcuni partners della nascente Europa.
Era pronta l’Italia a questo passo? Sicuramente No. La nostra agricoltura era ancora ferma all’aratura coi buoi, alla battitura a mano o con qualche rara macchina a vapore. Non si conoscevano, o quasi, i concimi chimici. E in Toscana fu grazie all’intuizione di un giovanissimo agronomo appena tornato dalla guerra, Contini Bonacossi, e alla capacità imprenditoriale di un suo coetaneo, Lapo Mazzei, se furono costruiti quei laghetti collinari _ ancor oggi diffusissimi un po’ ovunque _ che permettevano con pochissima spesa e senza grandi modifiche all’ambiente, di trattenere d’inverno l’acqua che sarebbe servita per l’irrigazione estiva.
Di fronte a problemi di queste dimensioni, quelli di oggi sembrano cose da niente. Ma l’Italia di allora poteva contare su individualità d’eccezione. C’era grandi idee, grandi valori, e c’era la volontà per realizzarli.
Sotto questo profilo, Firenze, era davvero capitale. Indiscussa. Indiscutibile. Riconosciuta come tale non solo nel nostro Paese ma nel mondo.
Sindaco della città, in quei giorni era La Pira. Che aveva deciso, assieme a Dossetti ed a Fanfani, di dimostrare come l’attenzione al sociale della Chiesa non fosse minore di quella dei partiti marxisti. E come risultati, esaltando invece che umiliare la libertà dell’individuo, fosse in grado di ottenerne di migliori. Era un uomo, La Pira, che credeva totalmente nel Vangelo e pretendeva di viverlo ogni giorno accettando ogni sfida col sorriso e la fede. Lo aiutava, in una realtà come quella cittadina, la presenza di personaggi del valore di Elia dalla Costa, il Cardinale, ma anche di don Giulio Facibeni, il fondatore della Madonnina del Grappa, di don Bensi che aveva mantenuto stretti rapporti con degli ex presidenti della Fuci, quali Giulio Andreotti ed Aldo Moro, o con prelati come Giovanni Montini, destinato a diventare Papa col nome di Paolo VI.
Firenze era dunque al centro del dibattito politico, oltre a quello culturale e religioso dell’Italia di quei giorni. I rapporti tra Fanfani e La Pira erano strettissimi. I due si erano conosciuti proprio a Firenze, in casa di Jacopo Mazzei, un uomo di pensiero, un cattolico di rara convinzione, uno studioso di economia, per molti anni rettore all’università di Firenze. Nella sua tenuta nel Chianti, a Fonterutoli, La Pira e Fanfani avevano lungamente discusso. Erano i giorni in cui, giovanissimi, partecipavano ambedue alla Costituente.
Fu questo legame, strettissimo, con la realtà politica romana, che permise a La Pira di compiere nel ‘53, con un risultato insperato, il salvataggio della Pignone. Ovvero la più importante realtà industriale di Firenze che dava lavoro a circa 1700 operai. Il sindaco occupò la fabbrica assieme agli operai. Fanfani, che era ministro degli interni ebbe non pochi problemi pur di evitarli al suo amico sindaco a Firenze. Ma alla fine, grazie all’intervento dell’Eni e di Mattei la battaglia fu vinta, e l’Italia conobbe per la prima volta l’intervento diretto nello Stato nel libero mercato. Quell’episodio, che fece un gran clamore e non solo in Italia, avrebbe poi condizionato infinite scelte, fino all’avvento del Centro sinistra.
In quei giorni, era durissima a Firenze la polemica per gli sfratti. Mancavano le case, e mentre le costruiva un po’ dovunque, furono volute da La Pira le case minime, e il nuovo quartiere dell’Isolotto. Il sindaco requisiva gli appartamenti sfitti per farci entrare gli sfollati. Le reazioni della stampa cittadina, e in genere dei partiti di destra, davanti a questi episodi furono durissime.
Se La Pira era il simbolo, concreto, di un mondo cattolico che proprio a Firenze viveva in quei giorni i suoi momenti migliori, anche le altre formazioni politiche avevano dalla loro nomi di grandissimo pregio. Calamandrei, Codignola, Ragghianti, Ramat, Fabiani, Pieraccini, sono alcuni dei nomi che rappresentavano la città nel consiglio comunale di quei giorni.
Firenze aveva allora una popolazione di 320mila abitanti. Ma la crescita era costante, anzi, preoccupante. E non solo perché in ogni famiglia c’erano in media tre figli, ma ancor più perché non si fermava la costante immigrazione dalle campagne. Il Valdarno superiore, il Mugello, erano i territori dai quali un’emorragia continua di forze lavoro si dirigeva verso la città. Nello stesso tempo, le industrie_ alcune per potersi rinnovare ed essere concorrenziali, altre perchè i padroni pensavano solo a monetizzare per trasferirsi altrove _ licenziavano con una facilità estrema. E quale fosse la realtà sociale di quei giorni, con la coabitazione in moltissime case, e stipendi che avevano un potere di acquisto inferiore al milione di oggi lo dimostrava la Messa di San Procolo, ogni domenica mattina alla Badia, quando La Pira riceveva i poveri della città e cercava di dare un aiuto concreto ad ognuno di loro.
Firenze, però, aveva anche delle possibilità economiche che altrove erano impensabili. Il turismo, ovviamente. Che proprio in quegli anni aveva ripreso a vedere nella nostra città una delle mete più desiderate al mondo. La moda, che dal ’51 per geniale iniziativa di pochi aveva cominciato a muovere i primi, elegantissimi passi. E ancora l’editoria. Con la Vallecchi, che continuava a raccogliere i successi che l’avevano resa la prima casa editrice in Italia nel periodo fra le due guerre. Ma ancor più con Le Monnier, la Nuova Italia, e tutto il settore dell’editoria scolastica che ancor oggi ha un peso notevole nella economia cittadina.
Firenze era poi città di antiquari, come sempre lo era stata del resto. E ancor più era città di artigiani. Con interi quartieri, quello di San Frediano e quello di Santa Croce in testa, dove ogni casa aveva la sua bottega sottostante. Ed era un produrre costante di oggetti in pelle e in cuoio, di legno restaurati o dorati, di ceramiche, merletti, ricami, tessuti. Perfino l’Arno, e tale resterà fino all’alluvione del ’66, era fonte di reddito per numerose famiglie. Ogni giorno il fiume era invaso dai barchini dei renaioli, che vi traevano la sabbia per le costruzioni. E c’erano perfino i pescivendoli che commerciavano solo pesci d’Arno, passando per le strade, e invitando le donne all’acquisto di carpe e di anguille ancora vive che tenevano in una bacinella sul davanti della bicicletta.
Un popolo in canottiera ed in ciabatte, che le sere d’estate usciva a rinfrescarsi raggiungendo il greto dell’Arno e qui trovava, massimo divertimento consentito, un saltimbanco che si chiamava “Gratta” che assieme ai figli, alle nuore, e a qualche amico, faceva divertire le famiglie. In cambio, passava col cappello fra la gente ripetendo sempre la solita formula: “Non lo facciamo certo per bisogno, perché di bisogno ne abbiamo anche troppo”.
E poiché lo stadio era troppo caro, troppo pieno il tram numero 17 che arrivava fino al Campo di Marte, la domenica la trascorrevano in molti allo sferisterio, quello delle Cascine, dove i soliti campioni si sfidano in eterne sfide al tamburello. Per il resto, la città era divisa in parti uguali fra quanti frequentavano la parrocchia e quanti preferivano la casa del popolo. Una divisione assoluta, verticale. Che si manifestava in occhiatacce, ma anche male parole e qualche rissa. Alla quale partecipavano anche i giovani, perfino i giovanissimi, quando venivano organizzate partitelle di calcio fra le due realtà. O piuttosto, quando in vista delle elezioni – frequenti, frequentissime, ogni volta con i due schieramenti a sostenere che era in gioco la libertà di ognuno – venivano organizzati i comitati elettorali. Che poi altro non erano se non un bussare a tutte le porte, e con una vecchia auto o con un camion, accompagnare al voto gli anziani, spesso non autosufficienti, che senza l’interessato aiuto di qualcuno non avrebbero mai raggiunto il loro seggio. Intanto la città ricostruiva i suoi ponti, e qualche privato – pochi in verità – rifaceva le facciate delle case, ancora umiliate dai fori di proiettili che ricordavano il recente passaggio della guerra. Era questa Firenze, nel ’53, e immaginare un gruppo di persone che privatamente si riunisce per aiutarla a crescere, per porsi al servizio della comunità, per progettarne lo sviluppo economico e il progresso, è sorprendente oggi. Eppure così nacque quel Lions. E in mezzo secolo di vita ha dimostrato che il suo impegno non era un’utopia. Né una presunzione.
CAPITOLO 2
L’Autostrada del Sole

Il 23 gennaio del 1961, l’amministratore delegato della Società Concessioni Autostrade Fedele Cova, presentò al Lions Club Firenze il tracciato dell’Autosole che di lì a poco avrebbe collegato la nostra città a Bologna e a Milano “con un unico e veloce nastro d’asfalto.”
Una serata del genere, in qualche modo veniva a completare una serie di incontri destinati a presentare al Lions i nuovi scenari, economici e sociali che si andavano profilando. Nel giugno, di quello stesso anno, entrò a far parte del Club l’Ing. Roberto Formichi, Direttore della Società Autostrade, segno della sensibilità e dell’interesse del Club verso la nuova opera.
Gia nei due anni precedenti i Soci del Club avevano discusso del nuovo Piano regolatore della città. Il Socio Giuseppe Paladino, Ingegnere e Architetto, aveva illustrato le nuove possibilità di sviluppo della città. L’argomento era centrale in quel periodo e proprio nel 1961 Edoardo Detti venne al Club a presentare le sue proposte sullo sviluppo a Nord-Ovest. Emergevano le prime tematiche ambientali e l’Arch. Lando Batoli, un altro noto professore universitario del tempo, trattò il tema dei problemi del litorale toscano che già allora conosceva la morte delle pinete e l’erosione delle spiagge.
In quegli anni si succedevano nelle serate al Club personaggi della vita politica nazionale come L’On. Antonio Giolitti, o l’On. Riccardo Lombardi, ma i temi di quei giorni erano anche aperti ai profondi cambiamenti del costume. Al Lions si discuteva della legge Merlin e dei Teddy Bois, della condizione giuridica della donna, argomenti affrontati da un giovane Socio fondatore, il Magistrato Francesco Padoin, che sarà un protagonista, sino alla tragica scomparsa, in un incidente ferroviario, della vita del Lions Club Firenze. Anche i vantaggi di immagine, per il nostro Paese, collegati alle Olimpiadi di Roma, erano trattati nelle riunioni, come si stava affacciando la consapevolezza dello stretto legame tra il futuro di Firenze e lo sviluppo della cultura e del turismo. L’autostrada, dunque, era uno degli anelli attraverso i quali passava il progresso, o forse ancor meglio la ripresa e la recuperata dignità del nostro Paese. Al Lions, più che altrove, era chiaro i vantaggi che sarebbero derivati dalla nuova realizzazione chiamata ad unire l’Italia. Anzi, come si diceva allora “ a rendere più vicini il Nord e il Sud”.
Non era cosa facile, alla fine degli anni Cinquanta, capire sino in fondo, cosa fosse davvero un’autostrada e quali conseguenze ne sarebbero derivate per i commerci, il turismo, il modo stesso di intendere i concetti di spazio e di tempo.
In quegli anni l’Italia procedeva con aumenti di record del prodotto interno lordo. L’inflazione era contenuta, mediamente, al 2,5. E per due volte la lira aveva ottenuto il massimo riconoscimento internazionale per la stabilità monetaria. Erano dunque gli anni del “Boom economico”, e l’ottimismo più diffuso ripagava delle sofferenze che gli italiani avevano vissuto nei venti anni precedenti. Fosse pure a cambiali, ma con l’inizio degli anni Sessanta tutto sembrava raggiungibile.
E tuttavia, le distanze avevano ancora una dignità. Gli spazi da coprire ancora incutevano timore. New York era davvero l’altro mondo, con gli aerei che timidamente cominciavano a passare dalla propulsione ad elica ai motori a jet. Per un viaggio a Roma era impensabile non prevedere un pernottamento. Ed a maggior ragione per Milano.
Anche il telefono, che pure già esisteva ed era diffusissimo, soprattutto in affari, non dava la certezza di raggiungere, sempre ed ovunque, la persona cercata. Insomma, per quanto sia difficile crederci, i collegamenti di quei giorni, lontani da noi appena 40 anni, erano per molti aspetti più simili a quelli della Firenze ottocentesca che non a quelli di oggi. Perché nell’ultimo mezzo secolo, più volte è stato scritto e dimostrato, la storia ha avuto un’accelerazione simile ai progressi fatti nei duemila anni precedenti.
Cos’era un’auto? Un oggetto comodo, che dava prestigio, e si muoveva con qualche rischio fino a raggiungere i cento chilometri all’ora o poco più. In Firenze ne circolava qualche migliaio, eppure già riuscivano a creare degli ingorghi e un discreto numero di incidenti. Quando si decideva una gita fuori porta, il traffico doveva subito fare i conti con i camion. Che non assomigliavano per niente ai Tir di oggi. Erano, invece, dei residuati bellici che arrancavano sui passi dell’Appennino a venti all’ora, portando povere merci e niente più.
A cosa sarebbe servita l’Autostrada? Cosa avrebbe permesso? Cosa avrebbe negato? I fiorentini erano curiosi, questo è vero, e forse più preparati di altri a cogliere l’idea. Infatti, erano stati fra i primi, già con gli anni Trenta, ad averne una per andare al mare. L’aveva costruita Mussolini. Aveva una corsia per ogni senso di marcia, e in circa ottanta chilometri presentava una sola salita e una sola galleria a Serravalle; una sola curva un po’ pericolosa ad Altopascio. Una strada diritta, dove si era anche tentato di battere il record mondiale di velocità nel tratto di Capannori. E dove, per abbellire il percorso, erano stati piantati anche dei pini.
Ma l’Autostrada del Sole doveva servire a ben altro che alle vacanze dei fiorentini. Doveva superare l’Appennino, salire fin oltre i 700 metri di altezza, scavalcare vallate, diventare l’asse portante del traffico nazionale. Si capiva questo? Si capiva ad esempio che l’A1 avrebbe cambiato radicalmente la cultura di aree geografiche che per secoli erano rimaste isolate, col solo impegno di conservare se stesse?
Gli economisti sì, lo intuivano, e ne parlavano in questi termini. Ma basta leggere le cronache dei quotidiani di quei giorni, per accorgersi che la gente comune non capiva. Sembravano buoni propositi, idee astratte e nulla più. Se due città o paesi, allora più di oggi, lottavano per avere un casello autostradale, era più per una questione di campanilismo che per una autentica consapevolezza dei vantaggi che ne potevano derivare.
L’Autostrada era una scommessa, un gioco che tutti erano curiosi di provare. E se piaceva molto agli italiani, era perchè la consideravano una “star”, una “griffe” per l’Italia stessa. In cuor suo l’italiano medio non pensava di poterne trarre vantaggi personali. Forse non immaginava neppure di poterla usare, un giorno, con una propria auto, partendo la mattina verso Roma, sbrigare i propri interessi, per tornarsene a casa nello stesso giorno. Queste erano cose da ricchi, da industriali, da manager. Per tutti gli altri, in quei giorni, l’unica cosa certa, era il Musichiere del sabato sera. E poi Lascia o Raddoppia. Se anche non si aveva la TV, in parrocchia, alla casa del popolo, perfino al bar, certe trasmissioni erano assicurate.
Con un coraggio, che oggi si direbbe una follia, senza avere neppure la certezza di quali percorsi scegliere, nel ’58 era cominciata l’avventura dell’Autosole. Ovviamente si partiva dal Nord, dalla Milano industriale. E con “audacia costruttiva”, come titolavano i giornali di quei giorni, avendo come unica idea fissa il fatto che “un’autostrada unisce due punti per la via più breve”, puntando a diritto il più possibile, scavando gallerie e costruendo viadotti, si mirava verso l’Appennino.
Gli ambientalisti, allora, erano rappresentati solo da Italia Nostra, che intervenne più volte a proporre, a consigliare. Lo fece _ come vedremo _ con idee molto giuste, ma restò quasi sempre inascoltata. Le sue proposte infatti, come le sue proteste, non aveva nulla a che vedere col linguaggio e perfino con l’aggressività, che alcuni nuclei ispirati all’ecologia rivelano oggi.
Il 16 luglio del 1959 Giovanni Gronchi, il Presidente della Repubblica, inaugurava i primi 200 chilometri da Milano a Bologna. I cronisti dell’epoca si compiacevano nel ricordare che cento anni prima, il 15 luglio del 1859, era stata inaugurata la linea ferroviaria Parma – Reggio – Modena, e tentavano difficili parallelismi fra le due realtà, con ciò dimostrando che ancora non avevano capito l’importanza di un nastro d’ asfalto destinato ad unire tutta l’ Italia. Ad accogliere Gronchi c’erano le fanfare, il 40° battaglione di fanteria, il 121° reggimento di artiglieria contraerea e tutti i sindaci dei comuni attraversati. C’era anche il cardinale Lercaro, e dai campi attraversati “folle di contadini” salutavano il corteo delle autorità, come si erano abituate a fare durante il Ventennio.
Ecco, dalle cronache di allora, come e con quali ritmi fu inaugurato il “veloce” percorso tra Bologna e Milano. Per arrivare dal capoluogo emiliano fino a Modena il corteo di auto, partito alle 10,30, impiegò circa un’ora. E una volta raggiunta la prima tappa, un violento acquazzone estivo consigliò agli autisti di fermarsi fino al ritorno del sole. A Reggio il corteo arrivò dopo un’altra ora. A Parma ci fu la sosta per il pranzo. Il viaggio verso Milano riprese così nel pomeriggio. Ancora una sosta a Piacenza, per rifocillarsi, poi l’arrivo nel capoluogo lombardo dove si tennero i discorsi ufficiali verso le 17.
Fu qui che il presidente Gronchi fece una solenne promessa. Disse che l’Autosole avrebbe continuato fino a Reggio e poi in Sicilia, con la Messina – Catania e la Catania – Palermo. Nessuno gli credette eppure la promessa fu mantenuta. E a tempo di record. Investendo in opere pubbliche, infatti, lo Stato dava lavoro a migliaia di operai, faceva circolare denaro, e, come si diceva allora, utilizzava “la pubblica risorsa come moltiplicatore dell’economia”.
Mentre Gronchi inaugurava il tratto Bologna – Milano, gli operai lavorano già, e duramente, negli Appennini. Era qui che l’abilità degli architetti e degli ingegneri veniva messa a più dura prova. Un tratto di 84 chilometri e 700 metri, progettato per essere percorso ad una velocità massima di 100 chilometri all’ora, da circa 20 mila automezzi al giorno. Fu con questi parametri che nacque l’autostrada, chiamata oggi ad ospitare in media 60 mila autoveicoli, quasi la metà camion, con punte di traffico che sfiorano i 100mila mezzi nelle giornate di esodo.
Per costruire il tratto Bologna _ Firenze furono necessarie 5milioni e 170mila ore lavorative. Furono impiegati macchinari “avveniristici”, costruiti apposta per quel tipo di impegno, e l’Europa ci guardò con sorpresa, forse con invidia.
Il passo, a 726 metri di altezza, era una sfida con la quale l’Italia dei primi anni Sessanta si presentava al mondo. Dicevano gli amministratori dei comuni attraversati dall’opera, perché i loro concittadini sopportassero stoicamente i disagi dei lavori in corso : “Le umiliazioni del dopoguerra sono finite. Adesso l’Italia è in cammino per altri obiettivi”.
Scrivevano i quotidiani di quei giorni che “furtivamente”, invisibile se non dai cantieri, l’Autosole continuava a muoversi verso Barberino e poi verso Firenze. Ma ogni tanto i lavori “furtivi” diventavano pubblici. E allora l’Italia delle celebrazioni si muoveva con le sue fanfare e le sue medaglie. Il tratto appenninico corre per oltre un terzo della sua lunghezza attraverso ponti, viadotti e gallerie, che da sole coprono 11 chilometri del percorso. Quindi, c’era sempre un ponte da inaugurare, una galleria da abbattere, un viadotto da aprire con tanto di bande e di fasce tricolori. Ma festeggiamenti insoliti, per rilevanza e partecipazione di autorità, si ebbero nel ’59, quando l’immancabile Togni, ministro dei lavori pubblici, fece saltare con una mina l’ultimo diaframma della galleria del Citerna, la galleria di valico, la più importante del tratto appenninico.
Da quel giorno Firenze sembrò a portata di mano, quasi raggiunta. E non era una tappa da poco. Era raggiunto il centro dell’Italia.
Si era pensato di far nascere, all’altezza del casello fiorentino dell’Autosole a 4 chilometri da Peretola, la sede centrale dell’Autostrada. Si procedeva, nello stesso tempo, al raddoppio della Firenze _-_ Mare, così che in una volta, grazie ai “santi protettori” che rispondevano ai nomi di Gronchi, di Togni e di Fanfani, il capoluogo toscano si trovava ad essere in qualche modo “capitale” dei collegamenti autostradali.
C’era un grande ottimismo. Ma nello stesso tempo c’era anche la preoccupazione di come continuare l’opera, faraonica, una volta arrivati all’altezza della nostra città. In particolare ci si chiedeva come aggirare il territorio urbano, per poi continuare fino a Roma.
Gli interessi che si muovevano intorno a questi progetti erano, comprensibilmente, enormi. E in effetti, ce ne rendiamo conto non da oggi, proprio il percorso dell’autostrada avrebbe condizionato enormemente il futuro della città .
In quali termini e con quale consapevolezza si affrontava in quell’epoca il problema? Mentre i lavori per il superamento dell’Appennino andavano orgogliosamente avanti, si faceva strada l’idea di far nascere a Firenze il centro direzionale di tutta la rete autostradale. Con una spesa di 400 milioni si progettava di costruire, nel comune di Campi, un edificio amministrativo, uno tecnico, uno meccanografico, una sede per la polizia stradale, il tutto per una spesa _ queste erano le cifre di allora _ di circa 400 milioni.
Il progetto, salvo alcune varianti minori, fu praticamente realizzato. Anzi fu arricchito con un albergo, il Motel che vediamo ancor oggi, una grande stazione di rifornimento e sopratutto con la chiesa dell’Autostrada, la cui costruzione fu affidata all’architetto Michelucci. Fu una delle opere più rilevanti nell’architettura di quei giorni, con la sua concezione di “chiesa tenda”, chiesa come riposo del viaggiatore, che in qualche modo si collegava al grande dibattito religioso che in quei giorni si svolgeva a Firenze, e sarebbe stato ripreso ed ampliato con il Concilio Vaticano II.
Togni, Fanfani, avevano dunque impostato le cose perchè Firenze fosse realmente al Centro dell’ Italia, anche dal punto di vista dei trasporti e quindi dal punto di vista commerciale. L’autostrada fu pensata e in larga parte realizzata con questa prospettiva. E ciò rivela quanto siano gravi le mancanze di coloro che, nei decenni a seguire, hanno lasciato che questa impostazione venisse tradita, al punto che i vantaggi di allora sono diventati i gravissimi problemi di oggi.
Si dibatteva in quei giorni, e tutta la città partecipò alla discussione, compresi insospettabili uomini di cultura come l’italianista Giacomo Devoto, su come far continuare l’Autosole nel suo tratto intorno a Firenze. Dato per certo il fatto che la stazione Nord doveva trovarsi a 4 chilometri da Peretola, in pratica dov’è oggi, ci si chiedeva come aggirare l’area urbanistica fiorentina per poi continuare verso Sud.
Su questo tema si confrontavano due diverse tesi. Chi preferiva che la città fosse servita da frequenti caselli, così che l’Autosole avesse delle uscite per ogni lato di Firenze, e chi invece temeva lo strangolamento della città stessa. Fra questi, col senno del poi sicuramente i più illuminati, troviamo schierati i soci di Italia Nostra, che indicarono un percorso tangente alla città. L’Autosole, dopo il casello di Calenzano e la grande area di Servizi di Firenze Nord, si allontanava dall’area urbana per superare la collina di San Donato e ricongiungersi all’attuale tracciato più o meno all’altezza di Figline. Ovviamente, poiché un’Autosole così concepita si allontanava da Firenze, era prevista, più o meno all’altezza dell’attuale tracciato, una sorta di circonvallazione cittadina, senza pedaggio, che doveva servire al traffico locale e nello stesso tempo a raggiungere più facilmente l’Autosole. Se si fosse scelta questa soluzione, è evidente, i problemi di oggi sarebbero stato risolti in grandissima parte, fin dagli anni Sessanta, e in grandissima parte a spese dello Stato.
Purtroppo non andò così. La soluzione indicata, era infatti ben più costosa di quella che poi prevalse. E il risultato, anzi le conseguenze, le conosciamo.
Resta da chiedersi come potè accadere che si lasciasse prevalere una scelta così miope, e per certi aspetti legata a questioni immediate di campanile. Una cronaca di quei giorni forse ci aiuta a capire. Un giornalista fu invitato a controllare i cantieri sull’ Appennino, dove si stava realizzando l’opera tra contrasti sindacali, incidenti sul lavoro, tensioni sociali e mille altri problemi. Ebbene, la cronaca fu quasi interamente dedicata agli aspetti esteriori della vicenda, a quello che oggi chiameremmo in gergo giornalistico il “colore”. “La montagna, si legge nell’articolo in questione, è tagliata da una rete di vie fangose sulle quali vanno e vengono, rasentando i precipizi jeeps , campagnole, autocarri carichi di sabbia o di legname, trattori, caterpillar. Le strade sono fangose e ripide, a volte tagliate quasi a picco lungo i burroni, e gli operai vi circolano infangati e imbiancati di calce da capo a piedi indossando giacche a vento e stivaloni di gomma…. Noi visitatori di un giorno , con i nostri abiti di città, le scarpe straboccanti di fango, i pantaloni inutilmente rimboccati saltellanti sulle pozze e indifesi contro il maltempo dovevamo avere un’area ben spaesata”.
Strano articolo, impossibile da pubblicare in un giornale di oggi. Va bene raccontare la scena delle “formiche” al lavoro in alta montagna. Ma che importa al lettore di conoscere l’incapacità di un cronista di vestirsi secondo le necessità del suo servizio? In quei cantieri si giocava il futuro e la credibilità dell’Italia. Occorrevano cifre, proiezioni sul traffico in futuro, dati tecnici. Ebbene, quell’articolo, bello o brutto che fosse non ha rilevanza, ci serve per capire come non si fosse, non i giornalisti, ma neppure gli amministratori e tanto meno la gente comune, capaci di comprendere appieno cosa stava accedendo. E quali conseguenze avrebbero avuto le scelte di quei giorni.
Un ulteriore motivo di acceso dibattito riguardava in quei giorni la continuazione del tragitto una volta superata Firenze. Fanfani aveva ormai vinto la sua battaglia per portare l’Autosole alla soglia di Arezzo, e quindi non c’erano più discussioni, almeno sino a Monte San Savino. A quel punto, però, gli umbri chiedevano a gran voce che l’Autosole entrasse nel loro territorio, sfiorando Perugia e Spoleto, per poi convergere verso Roma all’altezza di Terni. Questo percorso allungava di qualche chilometro il tragitto, ma chi lo sosteneva giurava che i 3 – 4 chilometri in più, erano ampiamente compensati dal fatto che i dislivelli erano minori. Ci furono convegni, dibattiti ad ogni livello, e i pacifici umbri si scoprirono, per la prima volta nella loro storia, come un popolo caparbio e capace comunque di lottare. Fu inutile. Alla fine prevalse il tracciato che tutti conosciamo. Ma gli Umbri riuscirono comunque e strappare un raccordo che, partendo da Orte, collegava l’Autosole a Terni. E così facendo, ottennero gran parte dei vantaggi senza dover affrontare la gran parte dei problemi. E infatti, viene oggi da chiedersi, avremmo oggi l’Umbria che tutti amiamo, e che è sempre ai primissimi posti nelle classifiche sulla qualità della vita, se l’Autosole con i suoi 60mila veicoli al giorno sfilasse sotto la basilica del Santo di Assisi?
Va dato comunque un merito agli amministratori di quei giorni. Seppero nell’arco di pochissimi anni dotare il nostro Paese di un sistema di grandi opere che è ancor oggi, pur totalmente insufficiente, alla base del sistema Italia. Dopo di allora tutto sarebbe diventato più difficile, se non addirittura impossibile, in Toscana più che altrove.
La conferma viene proprio dalle Autostrade. Già con gli anni Ottanta fu chiaro il tratto Appenninico dell’Autosole, con il moltiplicarsi dei veicoli, ma ancor più con il costante aumento del traffico merci, non era più sufficiente. Non solo, viadotti nati per sopportare il peso di un’auto o di piccoli camion a una velocità massima di 100 chilometri all’ora, si trovavano a subire le sollecitazioni di Tir di un peso quattro o cinque volte superiore ai camion anni Sessanta, lanciato anche a 130 chilometri all’ora. Ridisegnare il percorso si imponeva, anche per motivi di sicurezza.
La Società autostrade propose per questo una “camionale”, in pratica un tratto appenninico riservato al traffico merci. Ma ci fu una sollevazione che partiva, incredibile a credersi, più da motivazioni ideologiche che da considerazioni tecniche e pratiche. Si sostenne che era assurdo ”discriminare i camionisti”. Questa e altre amenità del genere servirono in quegli anni per tenere alta la tensione nel mondo politico. Si passò allora ad un altro progetto, quello per un nuovo tracciato tra Bologna e Firenze, disegnato in gran parte in galleria, che avrebbe abbassato il punto di valico dai 726 metri attuali a circa i 400 metri di altitudine. Ma per far accettare un progetto del genere occorrevano ormai 18 permessi. Perché oltre alle verifiche di impatto ambientale, più che doverose, anche i singoli comuni attraversati, le comunità montane, le province, le regioni ovviamente, avevano diritto di veto. Ed ogni amministrazione pretendeva di trarre dei vantaggi dall’opera progettata. Fu così che per tutti gli anni Ottanta si svolse un “gioco dell’oca” con il raddoppio dell’Autosole in Appennino che faceva un passo avanti e due indietro, sino a diventare un esempio della impossibilità del “sistema Italia” a gestire la grandi scelte del Paese, almeno in regioni come la nostra. Firenze, centro del Paese anche sotto il profilo commerciale, divenne in realtà una città isolata. In certi giorni quasi irraggiungibile, proprio per l’impossibilità del traffico di scorrere verso il Nord. Il tutto mentre il traffico cittadino si riservava nel tratto fiorentino dell’Autosole, in mancanza di una qualsiasi circonvallazione, anche le più periferiche cittadine del Sud ne sono fornite, che non fossero i viali ottocenteschi costruiti dal Poggi.
Come risultato siamo oggi a un passo dalla paralisi. Eppure c’è ancora chi pone dei veti ad agire. Restano comunque i piedi due progetti. Il primo per un nuovo tratto di circa 30 chilometri, quasi tutti in galleria, che dovrà sostituire il tratto più difficile dell’attuale percorso, comunque abbassando a 400 metri di altitudine il punto di valico.
L’altro progetto, prevede l’allargamento a tre corsie del traffico sul tratto fiorentino dell’Autosole, con ciò lasciando insoluto il problema di fondo di una circonvallazione fiorentina. Inutile, a questo punto, tentare di prevedere quando i lavori, dopo 20 anni di parole, cominceranno davvero.
CAPITOLO 3
L’Aeroporto a Firenze

Il Socio Ing. Giuseppe Paladino in occasione del meeting sull’aeroporto di Firenze. A Sinistra il Presidente del Club Mario Leone
Il 12 giugno 1960, Il Socio ingegner architetto Giuseppe Paladino, intrattenne i Lions sull’ipotesi di un aeroporto a San Giorgio a Colonica. Non fu un evento casuale, né fine a se stesso. Da quel giorno il Lions Club Firenze, forse la prima realtà fiorentina ad aver preso a cuore una questione di così grande rilevanza, fece dell’aeroporto fiorentino un suo cavallo di battaglia. Addirittura, nell’anno sociale ’65 – ’66, quando ormai il tema era dibattuto a tutti i livelli, con la presidenza di Mario Leone, il Lions pose la questione aeroporto come tema di studio per il suo anno sociale. Il 18 aprile 1966 raccolse intorno ad un tavolo tutte le autorità locali interessate, tra cui il Sindaco di Prato, Il Vice Presidente della Provincia e il Presidente degli Industriali De Micheli, che, in particolare, propose la costituzione di un Consorzio per lo studio ed il finanziamento dell’opera.
Eravamo agli albori di una lunga storia, che per molti aspetti non è ancor oggi conclusa. Storia costellata di errori, di polemiche, di campanilismi incomprensibili, di speculazioni mancate e di voltafaccia riusciti, le cui conseguenze sono ricadute su Firenze e su tutta la Toscana in modo assolutamente negativo. Una storia che vale pena, sia pure brevemente, ricordare. E nella quale il Lions Club Firenze ed i suoi soci, primo fra tutti l’indimenticabile Valentino Giannotti, che tanta parte ebbe nello sviluppo dell’Aeroporto, come lo vediamo oggi, hanno avuto un ruolo insostituibile.
Non è quindi un caso se il Lions Club Firenze, in occasione del cinquantesimo della sua fondazione ha proprio pensato all’aeroporto come sede di uno dei suoi più importanti Service: il dono alle Autorità aeroportuali ed alla città di una grande scultura bassorilievo in bronzo in onore di Amerigo Vespucci.

Una cerimonia all’Aero Club di Firenze

Un momento della Inaugurazione, con la benedizione del monumento
Grazie all’intuizione del Socio Aldo Torrini, Presidente del Comitato per le celebrazioni, ancora una volta il Lions Club Firenze ha dimostrato lungimiranza e tempismo, realizzando un Opera, affidata allo scultore Romano Lucacchini, che probabilmente, ma questa è cronaca, sarà una delle poche opere che Firenze dedicherà al grande navigatore nell’anno dedicato a Vespucci.
Nel 2003, infatti, cade il cinquecentesimo anniversario del quarto viaggio di Amerigo Vespucci alla scoperta del Nuovo Continente.
Fu proprio nel 1503 che egli, infatti, sbarcò sulle coste del Brasile ed in particolare nella baia di “Todos los santos”, fondando la città di Salvador Baia. Egli con questo viaggio confermò la teoria che le terre scoperte anni prima da Colombo, non fossero le Indie, ma un nuovo continente. Scoperta che gli varrà il privilegio, anni dopo, di dare il suo nome al nuovo mondo: Americhe.
Questo service ha quindi una valenza simbolica di ponte e collegamento tra Firenze e tutti i popoli del mondo, ben rappresentati nel Lions Club International che racchiude in 186 Nazioni oltre 1.400.000 soci. Questo dono racchiude in sé anche un omaggio postumo a Valentino Giannotti che trovò sempre nel Club affetto e considerazione. In una piccola, ma grande città come Firenze poi alla fine tutto si lega e si ricongiunge.
L’Autosole aveva superato l’Appennino, e già si faceva intravedere a Nord della città. Il raddoppio della Firenze – Mare era praticamente concluso e nell’area di Campi stava nascendo a tempo di record il Centro direzionale della società autostrade.
A Firenze, era la primavera del ’60, stavano tornando i turisti. L’artigianato, il commercio, avevano ripreso vigore e la città stava riacquistando il suo prestigio, agli occhi dei turisti di tutto il mondo.
Il prodotto interno lordo continuava a crescere a ritmi vertiginosi. L’inflazione era ferma al 2 per cento, e l’Italia aveva ormai dimenticato le sofferenze della guerra. Tutto sembrava possibile. E anche a guardar le stelle, c’era qualcosa di nuovo. Ormai i satelliti giravano sopra le nostre teste. E di lì a qualche mese il primo uomo, Gagarin, avrebbe volato nello spazio.
E Firenze, quando si decideva a volare?
L’aeroporto, a Firenze, era nato nel 1929. Prima di allora, chi voleva esibirsi “sulla macchine voltanti” dalle nostre parti, andava al Campo di Marte. Qui, gli aeroplani, alternavano le loro esibizioni con quelle dei circhi. Buffalo Bill, con le sue schiere di autentici pellirossa, si esibiva negli stessi luoghi destinati al volo di un aerostato, di una mongolfiera, di un monomotore con carlinga aperta. Con la prima guerra mondiale, gli aerei avevano però dimostrato sino in fondo la loro importanza, anche bellica. E per questo, fin dagli anni Venti, l’aeronautica si era affrettata a organizzare in Italia, una rete di piste per il decollo e l’atterraggio. Firenze rientrò in questo progetto. Anche se rimase una pista, un hangar e poco più fino alla seconda guerra mondiale.
Nel ‘47 Peretola fu usata, sia pure saltuariamente, per i collegamenti con altre città italiane. Ma fu solo nel ’55 che per la prima volta si pose, seriamente, il problema di uno scalo fiorentino. Scartata Peretola ” perchè pregiudizievole per lo sviluppo urbano”, si pensò alla zona di Sant’Angelo a Lecore, e per questo fu chiesto all’aeronautica di acquistare dei terreni in quell’area. Nel ’56 un gruppo di esperti indicò una terza ipotesi. Per loro era ideale un ampio terreno dove poi sarebbe nato il quartiere industriale dell’Osmannoro. Ma poiché tutti dicevano la loro, noncuranti delle proposte e dei progetti altrui, il ministero dei lavori pubblici propose, in alternativa, un finanziamento di 800 milioni per una pista parallela alla Firenze _ Mare, con ciò auspicando un potenziamento della già esistente Peretola. Nel ’58, quindi, il piano regolatore di Firenze si espresse a favore della soluzione di Sant’Angelo a Lecore e comunque indicò come necessaria la dismissione dell’aeroporto di Peretola.
Ormai, quello che sarebbe diventata la soap opera, o piuttosto lo scandalo dell’aeroporto fiorentino, già rivelava i suoi connotati. Ecco dunque come si svolgeva, già in quei giorni, la partita a ping pong, o forse lo scaricabarile, fra i vari enti locali della zona. Nel ’60 Prato si dichiarò disponibile alla soluzione di Sant’Angelo a Lecore, meglio identificata, ormai, nell’area di San Giorgio a Colonica. Ma nel ’61 tornò in auge la soluzione Peretola, con Alitalia che si disse disposta a costruire la nuova, necessaria pista di 1800 metri. Nel ’62 ecco una nuova idea, quella di utilizzare una zona pianeggiante ai piedi della Calvana, salvo intervenire la provincia di Firenze l’anno dopo per annunciare al mondo che la localizzazione migliore per l’aeroporto fiorentino era nel padule di Fucecchio.
Era finito, il gioco delle competenze? Macché si era appena agli inizi. E, infatti, nel ’67, ecco arrivare di nuovo l’idea di un potenziamento di Peretola, mentre già appare sullo fondo un nuovo ente, la Regione Toscana, che d’ora in poi avrebbe contribuito non poco a moltiplicare il caos.
E, infatti, dopo mille polemiche, ecco nel ’74 una sentenza. La zona semipaludosa e ricca di nebbie mattutine che corrisponde al nome di San Giorgio a Colonica, doveva essere scartata una volta per tutte. Pazienza se il ministero, non sapendo con chi aveva a che fare, aveva già stanziato 8 miliardi per fare l’aeroporto toscano da quelle parti. La Regione aveva deciso che il nostro aeroporto, quello dei toscani tutti, doveva essere il San Giusto di Pisa. Punto e basta. E Peretola? Un aeroporto per monoelica, alianti e poco più. Pazienza se ogni anno arrivavano per vedere il Cupolone otto milioni di turisti o giù di lì.
Fu una scelta politica? Può darsi. Fu una scelta sbagliata? Sicuramente. Fu una scelta per evitare di scegliere? Anche questo in parte è vero.
Di sicuro, però, non fu una scelta definitiva. E almeno questo, i fiorentini e i toscani in genere, se lo meritavano. Invece, negli anni ’80, ecco riapparire San Giorgio a Colonica, ecco a nuova vita restituita l’ipotesi di fare l’aeroporto ai piedi della Calvana, ecco risorgere tutti i sogni o i mostri degli anni 70. Addirittura ne nascono dei nuovi, come quello che vorrebbe l’aeroporto toscano verso Agliana. Chiacchere e niente più, mentre Firenze rimane a piedi nella sorpresa dei tour operator di tutto il mondo. Fra la rabbia di chi ha attrezzato la città per il turismo, specie quello congressuale, che ha bisogno di rapidi atterraggi ed altrettanto rapidi decolli.
Eppure in tutto questo periodo, pur agonizzante e trascurato, lo scalo di Peretola non aveva mai cessato di esistere. Fino al ’57 le linee aeree italiane (LAI) avevano garantito voli estivi. Poi erano arrivati i Fokker 27 dell’Ati. Nel ’74 era arrivata Aertirrena, sostituita nel ’76 da Avioligure. Insomma, con modestia, ma i fiorentini ostinati cercavo almeno di decollare verso la Sardegna e le altre isole.
Nel ’83, fino all’85, i voli erano ripresi con Aligiulia e finalmente la pista era stata allungata di 300 metri. Da Firenze si volava per Milano, Torino, Trieste e Venezia. Nell’86 fece la sua apparizione l’ATR 42. Per le sue caratteristiche tecniche sembrava nato apposta per abitare a Peretola. Il primo che da Milano volò su Firenze si chiamava “Ravello” e aveva le poltroncine verdi di Trussardi. Da Peretola a Linate, impiegava circa 38 minuti. E quasi sempre volava con il numero massimo di passeggeri.
Ecco, fu l’ATR a dimostrare la fame di decolli che avevano i fiorentini ed i turisti. In un anno salirono su ATR 250mila persone. E per avere un posto occorreva prenotare con settimane di anticipo. Era chiaro, ormai, che i fiorentini avevano pieno diritto di chiedere ai loro amministratori un aeroporto.
Tutto sembrava andare per il meglio, quando un ATR 42 precipitò a Como, e quel tipo di aereo fu tolto per lungo tempo dalla circolazione. Peretola tornò vuota. E il comitato per l’aeroporto fiorentino, che si era costituito nell’81 e aveva testardamente perseguito i suoi obiettivi, per la prima volta temette di aver perso per sempre la partita. Qualcuno tornò a proporre di nuovo l’ipotesi di San Giorgio a Colonica. Ma ormai non c’erano più neppure gli otto miliardi. Spariti chissà dove, come, o a vantaggio di chi.
Ma nonostante le non scelte dei politici, le loro gravissime responsabilità, le tante guerre di campanile che bloccavano a terra gli aerei sui quali avrebbero voluto salire, i fiorentini non demordevano. E lo dimostrò, contro tutto e tutti, un sondaggio fatto in città nell’88. L’80 per cento degli intervistati sosteneva di volere i Jumbo, i collegamenti internazionali, i voli charter. Chiedeva, insomma, che Firenze fosse all’altezza del suo ruolo internazionale anche nei collegamenti aerei.
Non era poca cosa per il Vespucci, così era stato ormai da tempo battezzato il nostro miniaeroporto, in un periodo in cui Peretola era ancora uno scalo di terzo livello. Non c’era una vera e propria strada di accesso, non c’era parcheggio, la sala d’attesa ospitava a mala pena 18 posti, nove erano i tavoli al “ristorante”, e lunghissime le file al check in, tanto che un cronista de La Nazione scriveva in quei giorni: “Good Morning Babilonia. Sarà anche un aeroporto di terzo livello quello di Peretola, ma il livello delle infrastrutture dove lo mettiamo? Manca tutto in questo scalo. O meglio, c’è tutto ma in scala lillipuziana. E così continuava fermando l’attenzione, positiva, solo davanti alla toilette. Che non ci sentiremmo di inserire nella lista delle insufficienze. Già, i gabinetti sono comodi e spaziosi, perfino puliti. Ma non è imbarazzante avere un wc come fiore all’occhiello?
Ebbene, nonostante tutto fu da questa realtà che Peretola in qualche modo prese il volo. Nel 1988 la regione lo confermò come scalo di terzo livello, ma nel frattempo le tecniche aveva fatto in suoi passi, gli aerei erano diventati più maneggevoli, in qualche modo si accontentavano di un minore spazio. Il che significava che potevano arrivare e partire aerei destinati al traffico nazionale e internazionale, aeromobili con un’autonomia di 3 – 4 ore, un raggio d’azione di 400 chilometri, con atterraggio e decollo corto. A queste caratteristiche corrispondevano gli ATR 42, i DC 9, i Bravo Alfa 146 da trasporto, i DH 7 e i DH 8. Era poca cosa? Sicuramente, ma era l’affermazione di un principio. Se 14 anni prima la regione aveva deciso che l’aeroporto della Toscana era quello di Pisa, punto e basta, adesso veniva sancito il fatto che assieme al San Giusto c’era _ fosse pure limitata per legge _ la realtà di Peretola. Nei fatti i commercianti, gli operatori economici, gli operatori turistici, la gente comune di Firenze aveva saputo con le sue battaglie capovolgere una decisione calata dall’alto, forse con il preciso intento di penalizzare il capoluogo.
Sembrava ormai acquisito il nuovo difficile rapporto tra Pisa e Firenze in tema di aeroporti. Ma l’anno dopo, nell’ottobre dell’89, l’Irpet non trovò di meglio che presentare un suo studio nel quale riproponeva la soluzione di San Giorgio a Colonica come la migliore possibile, almeno sulla carta.
Il meccanismo dei veti e dei rinvii, quello dei facili ottimismi, i giochi di campanile e le speranze di speculazione si rimisero in moto. Inutile ricordare che dal ’54 all’89, erano stati spesi miliardi a decine per studiare, progettare, non una ma ben 17 ipotesi di aeroporti in altrettante località diverse. Che scopo aveva rimettere in gioco San Giorgio a Colonica? Era forse una mossa strumentale per rinviare a chissà quando la richiesta di potenziamento di Peretola a cominciare dall’allungamento della pista? Lo sostennero alcuni commentatori di quei giorni. Forse, davvero, qualcuno voleva che Firenze, una volta di più, piegasse la testa davanti a Pisa.
In effetti, sul tema, anche il PCI si divise. I comunisti pratesi non erano d’accordo con quelli fiorentini. Nel gioco allo scarica barile, evidentemente, neppure la coesione ideologica era sufficiente. Alla fine però i pratesi, guidati dall’allora sindaco Martini, ebbero ragione. Il che non significò affatto che Peretola potesse decollare. Scartata, per l’ennesima volta l’ipotesi di San Giorgio a Colonica, Peretola rimaneva con la pista corta, nonostante avesse chiesto un allungamento di circa 400 metri.
Siamo ormai agli anni Novanta, e il sindaco fiorentino Morales è in prima fila per far decollare il Vespucci. E, nel febbraio del ’91 pare abbia ottenuto un compromesso. La pista non sarà allungata di 400 metri, ma di 250 sì. Può bastare? Forse, ma ecco allora 120 intellettuali fiorentini che firmano un documento contrario, ne fanno una questione ideologica e chiedono che Pisa, e solo Pisa, rappresenti la Toscana sotto il profilo aeroportuale.
E’ una mossa politica? Probabilmente, e Morales la respinge al mittente, per fortuna. Anche con una durezza che gli era davvero inconsueta. D’altra parte il Vespucci cresceva di giorno in giorno anche al di là delle speranze dei suoi sostenitori. Letteralmente “esplodeva” a dimostrare quanto necessaria fosse una struttura del genere. Nel ’91, pur con tutti i suoi problemi, a cominciare da quello dello spazio, era già diventato il 4° aeroporto italiano per collegamenti internazionali. Erano 19 gli aeroporti collegati giornalmente con Firenze, di cui 13 all’estero. E in un solo anno il numero dei passeggeri era passato da 200 a 600mila. Triplicato, insomma. Un traguardo da non credere.
Fu a quel punto, messi di fronte alla realtà, che anche i più ostinati oppositori di Peretola dovettero prendere coscienza della realtà. Si cominciò così a parlare di “collaborazione” fra Firenze e Pisa perché “ non ha più senso farsi la guerra”. Si cominciò a ipotizzare Pisa come aeroporto per i Jumbo intercontinentali ed i charter, e Firenze come aeroporto che, collegandosi ai grandi scali europei, permettesse di arrivare ovunque, dopo una semplice sosta a Francoforte, o Monaco, o Londra, o Amsterdam, o Parigi, o Bruxelles, o Zurigo.
Questa politica premiava, e non poco. Alla fine del ’92 i passeggeri erano diventati oltre 800mila, e i decolli egli atterraggi erano ormai 40 al giorno. Logico che in quei giorni i commenti degli osservatori, a proposito dello scalo fiorentino, fossero pieni di sarcasmo verso i pubblici amministratori “ L’economia va, si leggeva nei quotidiani cittadini, la politica arranca”. Il motivo? Semplice, la regione Toscana che a parole aveva sollecitato un accordo per integrare gli aeroporti di Pisa e di Firenze, nonostante le promesse non era riuscita a distribuire neppure un orario integrato dei due scali. A quanto pare, le antiche resistenze si erano fatte vive, anche solo a livello di burocrati.
Fu a questo punto, dopo un periodo di gestione affidato a Nicola Cariglia, giornalista Rai, socialdemocratico, lungamente presente nel consiglio comunale fiorentino, che la presidenza della società di gestione di Peretola passò ad un personaggio ben noto, un socio del Lions, presidente della Confcommercio, attivissimo, ironico, innamorato della sua città come pochi. Si trattava di Valentino Giannotti che dopo aver anticipato di almeno dieci anni una moda _ necessità, quella di circolare per Firenze con un vecchio e schioppettante motorino, aveva pensato di passare agli aerei con la stessa naturalezza e caparbietà.
Sarà un caso, ma subito le cose cambiarono. Già nel gennaio del ’93 fu annunciata la costruzione di un parcheggio di 750 posti. Un anno dopo era pronta, di color pastello, una nuova aerostazione di 3200 metri capace di sopportare quasi un milione di passeggeri l’anno. L’avevano dotata di grandi vetri per guardare la pista, sistemi modernissimi di aerazione, cristalli ed alluminio, insomma quanto bastava per accogliere in modo dignitoso i visitatori. Assieme alla aerostazione fu ampliata anche la dogana merci. L’intelligenza della gestione di Giannotti, che era arrivato ai vertici della Saf ( società aeroportuale fiorentina) nel giugno del ’92, stava nel lavorare sulle coincidenze tra i voli in partenza da Firenze e quelli che dovevano far rotta verso e oltre gli oceani dai grandi scali europei. A quel punto i fiorentini si potevano permettere di decollare alle 7.45 cambiare a Londra ed arrivare alle 14.05 a New York, ovviamente con la complicità del fuso orario. In ogni caso, voli del genere rendevano lo scalo fiorentino ben più pratico che non arrivare sino a Roma, per poi volare direttamente negli Stati Uniti.
A rimetterci, per certi aspetti, era Alitalia. Ma non era colpa di nessuno se Alitalia aveva spesso snobbato il nostro scalo.
Alla fine del ’94 le cifre del Vespucci erano impressionanti. Un collegamento aereo ogni 11 minuti, 62 voli al giorno, 11 compagnie aeree operanti, 650 mila passeggeri, 600 dipendenti contro i 40 che erano presenti al momento del “primo decollo” quello del 1988. Ma tutto questo non impediva che gli ostacoli arrivassero da tutte le parti, non si sa se per scelta ideologica o per semplice volontà di affermare il proprio potere settoriale. Resta il fatto che il famoso allungamento della pista, del quale si parlava ormai dalla fine degli anni Ottanta, quando ormai era sul punto di essere realizzato fu bloccato dal Sovrintendente archeologico Nicosia, perché erano stati scoperti alcuni reperti. Alcune compagnie minacciarono di andarsene, e fu necessaria tutta la capacità di Giannotti per evitare che Peretola cadesse di nuovo in stato di abbandono.
Ci volle ancora qualche mese perché l’Ataf si collegasse direttamente con lo scalo, e nel ’95 Firenze potè togliersi una soddisfazione non da poco. Air France lasciò Pisa per trasferirsi a Peretola. A quel punto anche Lufthansa e la stessa Alitalia pensarono a potenziare i loro voli fiorentini. “Scusateci, ma siamo i più richiesti” fece sapere dalle colonne dei giornali Valentino Giannotti, ormai sempre più credibile e più forte, anche perché la quota di Civilavia sullo scalo fiorentino stava totalmente passando alla Saf, la società di gestione da lui presieduta.
Poiché Firenze cresceva, a vista d’occhio, il ’96 si aprì con una nuova proposta di accordo con i parenti pisani. Furono i sindacati, questa volta insieme, a proporre una “fusione” tra il Vespucci e il San Giusto. Ma la risposta di Giannotti fu chiara e prevedibile: “troppo facile adesso, ormai abbiamo interessi divergenti”.
Fu l’ultima volta che il presidente potè difendere il “suo “ aeroporto. Purtroppo, nei primi mesi di quello stesso anno morì. Ma le sue opere rimasero lì a testimoniarne le capacità di manager e di innamorato di Firenze. Aveva preso il Vespucci quando i passeggeri non arrivavano a 200mila, lo lasciava che ormai sfioravano il milione. Un traguardo che neppure i più ottimisti pensavano raggiungibile. Di lui restava, fra l’altro, quanto aveva scritto nel presentare la nuova aerostazione nel ’95. <Non è importante il posto che occupiamo. E’ importante la nostra capacità di crescere, e crescendo, imparare a fare tutto quello che è urgente fare. E ancora, che cosa ha Peretola di diverso? Molte volte mi sono posto questo interrogativo e mi sono dato tre risposte. Primo, ha alle spalle Firenze, secondo può contare sulla qualità del servizio, terzo ha la credibilità della Saf, apprezzata dalle compagnie aeree per la sua serietà.
Dopo la morte di Giannotti, Peretola continuò comunque nella sua espansione. Nel 1998 i passeggeri furono 1 milione 236 mila, e l’anno dopo, nella prospettiva del Giubileo del 2000, il Vespucci fece un altro passo avanti, tanto da porsi ai primissimi posti nella graduatoria degli scali aerei italiani. Tutto questo non era esente da problemi e relative polemiche. Il 30 luglio del ’97 un ATR dell’Air Littoral proveniente da Nizza concluse il suo atterraggio sulla Firenze _ Mare e per poco non fu strage. Morì il pilota istruttore, rimasero feriti il secondo pilota, la hostess e alcuni passeggeri. L’anno dopo un Piper con 5 persone a bordo finì fuori pista e gli occupanti si salvarono gettandosi dalla cabina, mentre il velivolo prendeva fuoco. Era un problema collegato alla ristrettezza dello scalo o piuttosto un errore del pilota come nell’incidente del ’97? Errore del pilota, anzi, dei piloti accertarono le inchieste, e tuttavia il problema di come far convivere la pista con l’autostrada era e rimane una realtà, al punto che ancor oggi si ipotizzano, a scadenze fisse, soluzioni come l’interramento dell’autostrada o simili.
In modo incessante, però, il Vespucci ha continuato a crescere fino ai giorni nostri. Gli ultimi rilevamenti, nel febbraio del 2003, danno un incremento nel numero dei passeggeri pari al 6,3 in più rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. In pratica ogni mese partono o arrivano regolarmente dal nostro scalo aereo circa 193 mila passeggeri, tanti quanti ne arrivavano in dodici mesi 15 anni fa. Nello stesso tempo cresce in modo esponenziale il traffico merci. Nei primi mesi del 2003, grazie ad un nuovo sistema di gestione l’incremento è stato del 192 per cento in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Ce n’è abbastanza per capire perchè le azioni dello scalo fiorentino _ nel frattempo quotato in borsa _ siano introvabili. Nell’esercizio 2001, infatti, il Vespucci ha avuto 25 milioni di euro di ricavi con un aumento del 10 per cento rispetto all’anno precedente. Ed un utile netto di 4,5 milioni di euro, con un incremento del 24,5.
CAPITOLO 4
Un nuovo Stadio per i Mondiali

Il Presidente del Comitato Italia ’90, Luca Cordero di Montezzemolo ospite del Club
Il 9 maggio del 1988, Luca Cordero di Montezemolo tenne una conversazione al Lions Club Firenze che aveva come tema i futuri mondiali di calcio. Disse che l’avvenimento, previsto per il ’90, sarebbe stato ricordato per l’utilizzo delle altissime tecnologie, per l’organizzazione telematica dei pass e dell’assegnazione dei posti, ma forse, ancor di più, per l’ammodernamento degli stadi e in genere delle strutture sportive nelle città sede del mondiale.
In quell’occasione, con quella serata, il Lions rivelò una particolare sensibilità per un evento la cui natura non era solamente sportiva. Le positive ricadute di immagine, i vantaggi sotto il profilo turistico, erano evidenti. Ma soprattutto il mondiale offriva una grande opportunità. Metteva a disposizione i soldi per costruire lo stadio in un luogo più adatto, lontano dal centro cittadino, prossimo alle autostrade e all’aeroporto. Questo disse Montezemolo, durante la serata a Lions e trovando il pieno consenso della sala. Purtroppo, le cose, sarebbero andate ben diversamente.
Anche in questo campo il Lions Club Firenze aveva sempre mostrato grande Sensibilità. Sarà forse per quel suo Primo Presidente, Giovanni Canepele, Avvocato , Campione di Coppa Davis, che fu capace a pochi mesi dalla fondazione del Club il 26 ottobre 1953 di organizzare una tavola rotonda sul tema della necessità per Firenze di dotarsi di un Palazzo dello Sport; o per il contributo dato da un altro socio famoso, quell’Artemio Franchi, che fece la storia del Calcio, non solo italiano e che una immatura scomparsa privo di chissà quali altri traguardi internazionali; oppure per la presenza nel Club di Umberto Benedetto,che oltre ad essere ricordato come uno dei più grandi registi radiofonici, inventore dei Radiodrammi che tennero incollati alla radio milioni di italiani, era anche uomo di sport e grande tifoso della Fiorentina. Memorabile la conclusione del suo anno di Presidenza, quando il 14 Giugno 1969 festeggiò il secondo, e per ora ultimo, Scudetto con la squadra gigliata e con amici ed ospiti del calibro di Franco Zeffirelli, Giorgio Albertazzi, Salvatore Accardo e Carla Fracci.
Firenze non poteva dire no al mondiale di calcio del 1990. E questo per due buoni motivi. Il primo era che le squadre partecipanti avevano richiesto, esplicitamente, che la nostra città fosse tra le sedi prescelte. Il secondo era che in Firenze nacque, e nell’organizzare il mondiale in Italia questo aspetto fu enfatizzato, il gioco del pallone, o calcio in costume.
Firenze, dunque, fu presentata in quei giorni come la madre del gioco del calcio. Anche se il calcio in costume fiorentino assomiglia più al rugby, o piuttosto al football americano, che non al gioco del “pallone” come noi lo intendiamo. In effetti, è cosa nota, la prima testimonianza di una partita in costume giocata dalle nostre parti risale al gennaio 1490. L’Arno era ghiacciato, come avveniva sempre negli inverni di allora, quando l’Europa fu investita da una miniglaciazione. E proprio sui ghiacci del fiume, tra il Ponte Vecchio e il Ponte Santa Trinita, due squadre si affrontarono in rappresentanza di altrettanti quartieri cittadini. La folla assisteva alla gara dai parapetti del fiume e per difendersi dal freddo accendeva fuochi. Ce ne danno dettagliate notizie i cronisti dell’epoca, Luca Landucci nei Diari, Scipione Ammirato nelle Istorie fiorentine.
Passarono dunque 500 anni, tondi , tondi, fino al giugno del 1990, quando nella nostra città furono chiamate a disputare le gare di eliminazione per il mondiale di calcio le tre squadre dirette avversarie dell’Italia. Si trattava degli Stati Uniti, dell’Austria e della Cecoslovacchia. In seguito si sarebbero confrontate al Comunale Jugoslavia e Argentina. La vincitrice, la squadra di Maradona, avrebbe poi affrontato l’Italia in semifinale.
Era notti ” magiche”, o almeno così cantava la Nannini nel suo inno, ma prima di allora, per almeno un anno, erano state polemiche durissime, scontri non solo verbali tra gli organizzatori del mondiale e gli amministratori locali. Motivo del contendere, quel piccolo gioiello che era lo stadio costruito dall’ingegner Nervi, che l’amministrazione comunale aveva deciso di ristrutturare, e per arrivare allo scopo aveva speso una cifra sufficiente a costruirne uno nuovo. Inoltre era stata distrutta la pista d’atletica, e si obbligò la Fiorentina a giocare numerose partite fuori casa, proprio in un fine campionato che era tutt’altro che esaltante. Addirittura, a poche domeniche dalla fine, la squadra rischiava di retrocedere in B.
Ne valeva la pena? Lo stadio Nervi era ed è un monumento nazionale. Costruito agli inizi degli anni Trenta, lasciava in bella vista il cemento armato, così che avesse un ruolo strutturale e ornamentale nello stesso tempo. In teoria non c’era niente di nuovo. Se c’è un aspetto che caratterizza il Rinascimento fiorentino è proprio la meravigliosa, armonica coincidenza fra gli elementi strutturali e quelli ornamentali. Firenze non ama gli orpelli, i fregi, la pesantezza formale. Non l’ama nella cucina, nel linguaggio, figuriamoci nell’architettura. In questo caso, però, Nevi era andato oltre. Le scale elicoidali che salgono da terra verso la sommità delle curve. O più ancora la pensilina, che copre la tribuna coperta senza alcuna colonna di sostegno, così da offrire la massima visibilità, sembrarono ai fiorentini del suo tempo una sfida alle leggi della fisica. Armonico, ben inserito sullo sfondo delle colline, lo Stadio era dunque un gioiello di eleganza, ma nello stesso tempo una provocazione. Dimostrava che il nuovo materiale di quegli anni, il cemento armato, consentiva soluzioni arditissime e fino a quel giorno impensabili.
Non è casuale che un’opera del genere finisse, a far mostra di sè, in tutti i manuali di storia dell’arte. E non sorprende che il giorno dell’inaugurazione _ era d’estate _ a controllare l’opera, una volta tolte le impalcature, rimanesse solamente il Nervi perchè tutti gli operai erano fuggiti. Niente di nuovo, anche in questo, dalle nostre parti. Il Brunelleschi, così almeno raccontano le cronache, aveva vissuto un’esperienza analoga quando aveva tolto gli ultimi sostegni alla sua Cupola. Le maestranze erano convinte che tutto crollasse. E ben lo meritava, secondo loro, quell’orgoglioso del progettista, che aveva preteso di costruire una cupola di tanta grandezza senza usare impalcature a terra. Un’eresia, uno spregio, pretendere che uno dietro l’altro, posti i mattoni in modo circolare, potessero alla fine sostenersi gli uni con gli altri.
Ebbe ragione il Brunelleschi, ed ebbe ragione il Nervi. Anche se, a causa del caldo che c’era il giorno dell’inaugurazione dello stadio, la parte terminale della pensilina, una volta tolti i sostegni, prese a piegarsi verso il basso. Per questo fuggirono gli operai, mentre il Nervi, dicono le cronache di allora, sorrideva. L’abbassarsi della parte esterna della pensilina, infatti, altro non era che l’effetto della dilatazione del metallo dovuta al caldo di quei giorni.
Lo stadio Berta, poi Comunale, poi Franchi, costruito _ guarda caso per un altro mondiale di calcio _è dunque una cosa sola con la nostra storia e la nostra città. Così come la squadra che ci gioca, è una cosa sola con la città che la ospita, e a sostenerla è un tifo quasi viscerale. O quanto meno, un amore più profondo di quanto accada altrove.
E allora, ne valeva la pena di mettere le mani sul gioiello?
Il CONI, in vista de mondiali, aveva stanziato cifre considerevoli per ristrutturare o ricostruire gli stadi del mondiale. L’obiettivo, anche per motivi di sicurezza, era quello di mettere tutti i tifosi a sedere. A ognuno la sua sedia, davanti alle gradinate enormi vetri resistentissimi, e sopratutto un’illuminazione degna del mondiale, che prevedeva di giocare di notte proprio le partite più importanti.
Ebbene, perchè non approfittare dell’occasione per costruire uno stadio nuovo nella zona delle autostrade, così da liberare il quartiere residenziale del Campo di Marte dalla schiavitù della partita domenicale? Il terreno c’era, nella zona di Peretola. E a sostenere questa soluzione erano anche gli esponenti del Comitato locale per i mondiali, a cominciare dal presidente Ranieri Pontello. Gli amministratori, però, la pensavano in un altro modo. Nella speranza di risparmiare qualcosa, o perchè avevano altri programmi ed idee sul futuro cittadino, optarono per la ristrutturazione dell’esistente.
Il progetto fu affidato all’architetto Gamberini che, come è noto, fu uno dei giovanissimi collaboratori di Michelucci per la costruzione della stazione di Firenze. Gamberini, al termine di una prestigiosa carriera, in quei giorni aveva appena concluso e inaugurato il nuovo archivio di Stato in Piazza Beccaria.
L’architetto capì subito che per mettere a sedere tutti i possibili spettatori, avrebbe dovuto ridurre la capienza ben al di sotto delle necessità del Mondiale, ma ancor più della Fiorentina. Avremmo avuto trentamila posti, non di più. E allora, come ricavare gli spazi mancanti? Le soluzioni possibili erano due. O innalzare le tribune, o scavare il campo da gioco in modo da prolungare le gradinate verso il basso.
La prima soluzione, ovviamente, fu scartata. Se lo stadio fosse diventato una muraglia, di fronte alle villette liberty della zona, se avesse tolto la vista delle colline a Nord e a Est, di sicuro i fiorentini si sarebbero ribellati, per non parlare della soprintendenza.
Fu così scelta la strada di scavare per qualche metro il terreno da gioco e far proseguire verso il basso le gradinate. Ma poiché quest’ultime, ovviamente, convergono verso il centro, questa operazione era possibile solo rinunciando alla splendida pista per l’atletica che, almeno una volta l’anno, ospitava riunioni di buon livello. Giustamente gli amanti di questo sport si ribellarono, ma furono messi a tacere dagli amministratori, che promisero la costruzione a tempo da record di un nuovo stadio per l’atletica. Un “tempo da record” che si è concluso proprio in questi giorni, con la trasformazione in stadio di atletica del vecchio stadio militare.
Nonostante le proteste si andò avanti in questa direzione, e approfittando della pausa estiva del campionato del 1988 _ 89, si cominciò a scavare. C’era intorno all’organizzazione del mondiale una diffusa euforia. Si stavano organizzando, per la tarda primavera del ’90, in coincidenza delle partite del mondiale, manifestazioni di grido nei più svariati settori. Il Maggio musicale avrebbe avuto un’edizione fra le più prestigiose. Mostre di rilievo si sarebbero alternate a manifestazioni sospese fra la cultura e il costume, come l’esposizione delle Ferrari al Forte Belvedere.
Ai primi di dicembre dell’89, il sorteggio avvenuto a Roma, assegnò a Firenze proprio la squadra che maggiormente era desiderata in città quella degli Stati Uniti. Si illudevano i fiorentini _ anche in considerazione che il mondiale del ’94 si sarebbe svolto proprio negli USA _ che folle di turisti a stelle e strisce sarebbero arrivati in città prima e durante il mondiale. Non avevano capito, purtroppo, che il calcio negli Usa era e rimane uno sport minore, e perfino i giornalisti al seguito della squadra sapevano ben poco di un penalty, o di una “fascia laterale”. E tuttavia, nonostante strane scritte sulle mura di Firenze ” Il mondialismo ti uccide”, quasi un’anticipazione del movimento “No global” dei giorni nostri, e nonostante una bomba carta fatta scoppiare davanti alla sede del Comitato locale per i mondiali in via Cavour, tutto procedeva discretamente.
E’ vero, quando Montezemolo fu invitato a parlare all’università dei suoi progetti per il mondiale di calcio, trovò ad attenderlo decine di studenti sdraiati per terra che, in forma passiva, cercavano di impedirgli l’entrata. Ma a parte questi episodi, tutto sembrava procedere per il meglio. E i negozi fiorentini, specie quelli del centro, facevano a gara per allestire al meglio le loro vetrine, con i colori delle squadre che dovevano venire in città. E quindi l’Austria, gli Stati Uniti e la Cecoslovacchia.
Anche lo stadio, dunque, sembrava cosa fatta, quando ci si accorse degli enormi ritardi nei lavori. E’ vero, lo scavo del campo, in pratica l’abbassamento del terreno di gioco era stato concluso a tempo di record. Ma la costruzione delle nuove gradinate, e più ancora la messa in opera dei seggiolini su quelle vecchie, era più complessa di quanto si potesse pensare. Il cemento aveva bisogno di ritocchi in profondità, in certi casi si doveva letteralmente sostituire il vecchio con il nuovo. Ancora peggio con l’illuminazione. I vecchi e discreti “lampioni”, che fino a quel giorno avevano stupendamente assolto al loro compito, erano considerati un rottame e andavano sostituiti. Al loro posto furono montate delle enormi “padelle” _ così le soprannominarono allora i fiorentini ed il nomignolo giustamente è rimasto _ che ancor oggi fanno pessima mostra di se stesse, così da Fiesole come dal Piazzale Michelangelo. Padelle che emettevano una luce tale, da togliere ogni penombra nelle vicine colline del Salviatino, o di San Domenico, così che una elegante, secolare penombra di parchi e di ville, diventava un accecante vista degna di una periferia industriale.
Era chiaro, a quel punto, l’errore commesso. Tanto più che per costruire i garage sotterranei, una palestra, e quant’altro si volle inserire sotto lo stadio, si andarono a trovare piccole sorgenti, che non fu facile contenere o deviare, senza distruggere un equilibrio idrico, ai piedi della collina, fra i più ricchi e i più interessanti di tutto il territorio fiorentino.
Lievitavano i costi, rabbrividivano gli amministratori, e in compenso i lavori andavano terribilmente a rilento. A un certo punto la Fifa fece sapere che, continuando a quei ritmi, Firenze non avrebbe avuto lo stadio pronto e quindi avrebbe perso il mondiale.
Apriti cielo. Gli amministratori si ribellarono dicendo che erano state imposte delle norme, nella ristrutturazione dello stadio, che non erano previste e che avevano fatto lievitare i costi. Replicarono gli avvocati della Fifa che quelle regole _ e purtroppo era vero _ erano tutte indicate nei contratti a suo tempo mostrati al Comune.
Ci volle la mediazione del Comitato organizzatore locale, e in particolare del presidente Ranieri Pontello, perchè fosse evitata una clamorosa rottura tra Firenze e gli organizzatori del mondiale. Ma tuttavia le delibere tardavano ad essere approvate, mancando le delibere mancavano i soldi per andare avanti e mancando i soldi i lavori non procedevano.
A un certo punto fu chiaro che, giocando la Fiorentina in quel terreno, lo stadio non sarebbe mai stato concluso entro la scadenza di giugno. Per questo fu chiesto ed ottenuto che i viola giocassero fuori casa le ultime partite. Fu una scelta dolorosissima, e il fatto che la Fiorentina fosse a rischio retrocessione, di certo non aiutò i rapporti tra Firenze e il suo mondiale. Si pensi, inoltre, che per accogliere gli ospiti stranieri, era prevista l’assunzione a tempo di circa mille hostess. Molte ragazze fiorentine aspettavano a gloria l’occasione per guadagnare qualcosa e potersi regalare una vacanza con l’estate in arrivo. Ma la delibera comunale con i soldi annessi, che permetteva il loro ingaggio, fu firmata appena dieci giorni prima dell’inizio del mondiale.
I tempi di preparazione, quindi di lavoro, si ridussero al minimo. Per fortuna Firenze era abituata a ricevere turisti, convegnisti, ospiti di tutti i livelli. E l’impegno totale di un buon numero di professionisti, del settore accoglienza, fece sì che nonostante tutto la nostra città risultasse la migliore fra quelle che ospitarono il mondiale. Lo fu nel giudizio della stampa internazionale e di Luca di Montezemolo, che aveva guidato l’organizzazione. Ma lo fu, soprattutto, alla verifica dei fatti. Gli organizzatori fiorentini, infatti, furono contattati per aiutare gli Stati Uniti nel mondiale del ’94. E uno di loro, il segretario del comitato fiorentino Stefano Pucci, accettò l’incarico diventando uno dei pilastri nella organizzazione del mondiale USA.
Per l’inaugurazione, lo stadio fiorentino a nuova vita restituito, che molti avrebbero preferito come era, poteva ospitare, seduti, 44781 spettatori. In più, almeno per il mondiale, c’erano 500 posti in tribuna d’onore riservati alle autorità, 932 ai giornalisti, 426 ai radiocronisti, 100 ai fotografi. In particolare furono considerati “avveniristici” i posti per la stampa. Ognuno aveva a disposizione un modulo di 136 centimetri nei quali trovava posto il telefono, la macchina per scrivere o computer, e un monitor sul quale seguire le partite. Novità assoluta fu una stanza da dove controllare, via monitor, tutti i settori delle gradinate per avere la massima garanzia di sicurezza. Inoltre, di concezione modernissima, fu il tabellone luminoso che poteva e può trasmettere pubblicità, immagini in diretta, film e qualunque tipo di immagine. Il concetto era quello di creare ” il più grande teatro all’aperto” nella storia di Firenze.
Tutto bene allora? Tutto fuorché i costi. Che alla fine risultarono di 90 miliardi. Una cifra sufficiente a fare uno stadio nuovo a Peretola. Lasciando il Comunale per le gare di atletica e per le manifestazioni sportive minori, e restituendo la necessaria tranquillità, anche domenicale, ad uno dei quartieri residenziali più gradevoli di tutta Firenze, il Campo di Marte. Fra l’altro, per risparmiare, accanto al nuovo tabellone fu lasciato il vecchio. Nei progetti c’era la demolizione appena dopo il mondiale. Ma ancor oggi è al suo posto, e di sicuro non fa bella figura.
Il mondiale comunque ebbe inizio. Le tre partite di qualificazione si svolsero in un clima di festa. Poi, sabato 30 giugno alle 17, fu la volta di Jugoslavia – Argentina. C’erano 38mila spettatori e 38 gradi all’ombra. Maradona sbagliò un rigore, ma alla fine la sua squadra ebbe la meglio. Firenze aveva concluso il suo mondiale. Gli argentini improvvisarono, all’aperto, gare di tango. Erano offesi perchè i fiorentini avevano tifato per la Jugoslavia, ma il motivo era evidente. La vincitrice della gara Fiorentina avrebbe poi incontrato l’Italia in semifinale, e nessuno voleva fra i piedi Maradona. Era stata una facile profezia. Maradona ci fu, e l’Argentina ci escluse dalla finale. La sconfitta fece piazza pulita delle polemiche per lo stadio. Sono passati molti anni, e a memoria di un grave errore, commesso dai nostri amministratori, sono rimaste i piedi le “padelle”.
CAPITOLO 5
I Bronzi di Riace

Firenze dell’arte e della cultura ha sempre avuto uno spazio d’onore nelle serate al Lions. Spesso anticipando temi che sarebbero diventati, col passare del tempo, di comune interesse. Un esempio? Il 27 febbraio del 1961, la direttrice degli Uffizi Luisa Becherucci, tenne una conversazione sul futuro della galleria più nota al mondo e il suo ampliamento. Li chiamavano allora in un altro modo, nei fatti già si parlava di Grandi Uffizi.
Del resto uno dei relatori abituali, al Lions di quegli anni, era Piero Bargellini. Che da par suo intratteneva i soci sulla storia dell’antiquariato a Firenze, o tratteggiava il ruolo che avevano avuto per la città i grandi ordini francescani e benedettini.
Negli incontri promossi dal Club e scorrendo l’elenco dei Soci di quegli anni a cavallo degli anni sessanta – settanta si ha proprio una visione dettagliata delle tematiche di quel tempo e dei loro riflessi sul futuro della città. Appartennero al Club uomini come Raffaello Torricelli e Franco Tancredi, che gestirono in anni successivi,in modo lungimirante e pragmatico quello che allora era il vero motore dello sviluppo della città: l’Ente per il Turismo. Anche il mondo delle Soprintendenze fu vicino al Club spiccano le figure di Guido Morozzi, Luciano Berti, Luisa Becherucci, Carlo Ludovico Ragghianti,e un personaggio ben noto in quegli anni ed oggi forse dimenticato, quel Rodolfo Siviero, ambasciatore della cultura, che si dedicò negli anni cinquanta e sessanta al recupero delle tante Opere d’arte, quadri e sculture trafugate dai nazisti alla fine della II Guerra mondiale.
Tutta questa sensibilità si espresse anche negli anni ottanta e novanta con due interventi: il restauro della facciata di S. Salvatore al Vescovo, nel complesso del palazzo Arcivescovile di Firenze e la Informatizzazione dell’Archivio storico della Chiesa di Santa Croce, una iniziativa che nel 1993 in occasione della celebrazione del 40° della fondazione del Club, aveva un grosso valore tecnico scientifico innovativo in quanto si era all’albore della diffusione dell’informatica.
La storia, al Lions Club Firenze, era intesa come un modo per meglio comprendere il presente. E la cultura, in una visione assolutamente moderna, era considerata come un investimento per la città, nei giorni in cui a Firenze la si considerava come un prestigioso, insostituibile onere.
Ma un giorno, a far piazza pulita di tanti stereotipi e di tante forme di provincialismo culturale, arrivarono dai mari di Calabria i Bronzi di Riace. Il 27 marzo dell’81, il professor Alessandro Parronchi e Roberto Francia, Direttore del centro restauro della soprintendenza archeologica toscana, tennero al Lions una conferenza sui due guerrieri arrivati da 2500 anni fa. Cominciava un nuovo modo di intendere la bellezza nell’arte o, come fu detto allora, l’arte nella bellezza. In qualche modo, le masse pretendevano di esprimere, ed imporre, il loro giudizio estetico. L’orgoglio di tanti critici e storici dell’arte, la loro ambizione di decidere in modo elitario ciò che era bello e ciò che non lo era, crollava davanti alla prepotente bellezza dei guerrieri. A decretarne il successo, a costruirne il mito, era stata infatti la gente comune.
Tutto cominciò una mattina di aprile del 1981. Il soprintendente archeologico per la Toscana, Francesco Nicosia, telefonò a un amico giornalista di un quotidiano locale per dirgli chiaro e tondo: “Li ricordi quei bronzi che furono ripescati in Calabria quasi 10 anni fa, e che ci hanno affidato per i restauri?. Li abbiamo messi in piedi e sono di una bellezza sconvolgente. Credimi, valgono per lo meno due foto e un grande articolo.>
Il giornalista si mosse, un po’ svogliatamente, perché era cosa nota che dai giorni dell’alluvione, da quando avevano dovuto impegnarsi per recuperare le opere d’arte di Firenze, i gabinetti di restauro locali erano diventati fra i più richiesti al mondo, e lavoravano a pieno ritmo su opere di immenso valore e della più svariata provenienza.
Spesso, però, i reperti restaurati avevano importanza per gli esperti, per gli studiosi, per chi studiava arte. Come spiegare al grande pubblico di un quotidiano il valore di certi oggetti? Era svogliato il giornalista fiorentino, e il fotografo almeno quanto lui. Ma una volta entrato nei laboratori della soprintendenza dovette ricredersi. I due guerrieri che lo guardavano dall’alto erano fra le cose più belle che gli era capitato di vedere. Per certi aspetti competevano col David. L’articolo c’era, senza ombra di dubbio. E il giornale gli dette gli spazi che si meritava.
Passarono pochi giorni, e la folla già faceva la coda per incontrare i “Guerrieri di bronzo” che erano stati esposti in una sala del Museo archeologico fiorentino.
C’era stupore nella gente. C’era ammirazione. C’era una curiosità assoluta, nel vedere quanta bellezza potesse arrivare fino a noi dal mare, che l’aveva nascosta per 25 secoli. In qualche caso ci furono malori. La “sindrome ” di Sthendal, quella vertigine che può prendere davanti ad un’opera d’arte, e che Graziella Magherini, psicologa fiorentina, ha scoperto e dimostrato senza ombra di dubbio, davanti ai Bronzi diventò un’epidemia.
Arrivarono da ogni parte del mondo per vederli. Interi gruppi, charter organizzati a quello scopo, volando dalle Americhe venivano a Firenze per ammirare i bronzi di Riace. Quando mai una scoperta archeologica era riuscita a coinvolgere fino a quel punto il grande pubblico? Certo, l’elite intellettuale storceva il naso. Non negava, è evidente, la grandezza dei bronzi, ma il modo col quale avevano conquistato le folle.
Gli intellettuali di professione, da sempre abituati a decidere dall’alto ciò che è bello e ciò che non lo è, apparvero all’inizio sorpresi e subito dopo dispiaciuti di dover dividere il loro piacere estetico con la masse. Dicevano “Questa non è cultura, è curiosità” Speravano, forse, così dicendo di distinguere una volta di più se stessi dagli altri. Altrimenti , che elite avrebbero rappresentato se provavano emozioni così diffuse e comuni?
Simili distinguo, un po’ ipocriti, sicuramente inutili e comunque incapaci di modificare la realtà, apparvero in quei mesi su tutti i giornali. La realtà, però, aveva il sopravvento su tutto. In 50 giorni i Bronzi avevano ricevuto la visita di 500mila persone. Una media di 10mila al giorno.
Firenze, all’improvviso, si ricordò di essere la città dell’arte e della cultura. Riscoprì il gusto delle proprie origini. Mai come in quei giorni erano andati a ruba libri sull’arte, specie quella greca. Ma anche libri di storia fiorentina, perchè si voleva capire sino in fondo come mai Firenze era stata la culla naturale per tanta bellezza. Attraverso i due guerrieri nudi, cresceva la consapevolezza delle nostre stesse origini. Tutta la retorica, della quale è spesso intrisa la fiorentinità, all’improvviso si incarnava in due statue di bronzo. I fiorentini le adottarono. Da un giorno all’altro le considerarono proprie e fu doloroso potersene staccare.
Com’era avvenuto il ritrovamento?
Una mano affiorava dalla sabbia. Il sub la notò di sfuggita mentre risaliva da un’immersione in apnea. Fu colto di sorpresa. Ma con quell’immagine ancora impressa negli occhi arrivò in superficie, riprese fiato, una sola boccata, e si gettò di nuovo. Era a 300 metri dalla riva, su un fondale sabbioso che nei giorni precedenti era stato colpito e smosso da una mareggiata. Il sub toccò la mano e la scoprì di bronzo. Mosso appena la sabbia e scoprì l’avambraccio, poi una spalla, una testa ricciuta ed i capelli. Poco distante c’era un ginocchio piegato verso l’alto. Il sub si mosse in quella direzione. Scoprì due gambe, un torace possente. Un’altra statua riposava supina.
Era il 16 luglio del ’72 quando i due Bronzi tornarono alla luce, dopo 2500 anni. Le spiagge erano quelle ioniche di Riace.
A fare la scoperta un chimico di Roma, Stefano Mariottini, un sub per passione in vacanza da quella parti. A lui il ministero dei Beni Culturali darà un premio di 125 milioni per il ritrovamento. Ma, come sempre in questi casi, il Mariottini avrebbe pagato duramente la sua scoperta. Fu sospettato che avesse trovato anche altri oggetti, o addirittura statue, dei quali si sarebbe disfatto in modo illegale. Le solite storie, calunnie mai provate. Solo che in questo caso, a ingigantirle, era la fama dei Bronzi. I due guerrieri, infatti, nell’arco di poche settimane avevano conquistato il mondo e riportato, una volta di più, l’attenzione del mondo su Firenze.
Che meriti aveva la nostra città?
Dopo il ritrovamento, dei bronzi si parlò nell’autunno seguente, durante un convegno di studi sulla Magna Grecia svoltosi a Taranto. Gli studiosi erano tutti d’accordo, si trattava di statue originali, greche cioè, anche se alcuni avevano dei dubbi e non scartavano l’ipotesi di “falsi” realizzati nel ‘500. Il motivo? Fu nel XVI secolo che si imparò a fondere i metalli in modo sicuro e raffinato. E non a caso fu in quel periodo che si impararono anche a fondere ” i cannoni”, meglio le colubrine, così che l’arte della guerra avrebbe radicalmente modificato le sue regole. Potevano i greci fondere statue alte due metri, facendone un esempio di forza e di grazia nello stesso tempo?
Occorreva andare in fondo alla questione, ma prima si pensò di continuare le ricerche nella zona di Riace. Se c’erano due statue, dov’era la nave che le aveva trasportate? Dov’erano lo scudo e la lancia dei guerrieri? Nel ’93 cominciarono le ricerche nella zona. Ma senza risultati, purtroppo.
Intanto le due statue erano state portate al museo archeologico di Reggio, dove i restauratori avevano provveduto ad una prima pulitura. Per agire più a fondo, però, occorrevano altre attrezzature e forse altra esperienza. Fu per questo motivo che si pensò una prima volta a Firenze e ai suoi ben noti gabinetti di restauro.
Non era cosa facile togliere ai calabresi i loro reperti, e giustamente. Ma alla fine la cosa fu possibile, in cambio della promessa sacrosanta che una volta ripuliti e rimessi in piedi, i Bronzi sarebbero tornati a casa, in Calabria cioè.
A Firenze i due bronzi arrivarono nel 1975. Era gennaio. Francesco Nicosia era in quei giorni direttore del centro di restauro. Poi , divenuto che fu soprintendente, il suo posto fu preso da Roberto del Francia. Due i restauratori, Renzo Giachetti ed Edilberto Formigli.
Il lavoro andò avanti 5 anni, ininterrottamente. E per la prima volta furono usate tecniche considerate all’epoca ” avveniristiche”. In primo luogo camere endoscopiche, più o meno le stesse che venivano usate in chirurgia, capaci di entrare dentro la statua e “raccontare” all’esterno il suo stato di salute.
Formigli si appassionò sopratutto allo studio delle terre di fusione. I bronzi infatti erano pieni di sabbia, e ad un primo controllo si era pensato fosse sabbia del mare di Riace, che un’onda dopo l’altra aveva riempito la cavità delle statue. Formigli era di parere contrario, e invece di liberarsi in gran fretta di quel peso “inutile”, lo estrasse con una cura da certosino, e un po’ alla volta non solo ebbe conferma che si trattava di terre usate per la fusione, ma addirittura, in quegli anni solo alcuni studiosi tedeschi avevano avviato studi sulle terre di fusione in epoca classica, grazie alle terre potè indicare al provenienza delle statue.
Sicuramente erano state fuse in Grecia. Probabilmente, a fondere uno dei bronzi, era stato Fidia.
Bisturi, martelletti ad ultrasuoni, apparecchi ridisegnati apposta per adattarsi al restauro di questi impareggiabili reperti. Una volta vuotati che furono i due bronzi, cominciò un altro tipo di intervento. Il bronzo presentava qua e là alcuni “focolai di corrosione”. Occorreva intervenire per isolarli, evitare che si estendessero.
Il lavoro dei restauratori fiorentini andò avanti sino a quel giorno d’aprile del 1981. Sapevano, il soprintendente Nicosia ed i suoi restauratori, che una volta esposti avrebbero conquistato il mondo, e quindi sarebbero diventati “patrimonio” di tutti. Ma non avevano alcuna voglia di abbandonarli al loro destino. In qualche modo si sentivano come ” dei medici che li hanno a nuova vita restituiti”. Fu il motivo per cui, prima ancora di aprire l’esposizione al Museo archeologico, divulgarono nell’ambito scientifico una “relazione” sul loro lavoro che si concludeva con questa raccomandazione : non è opportuno sottoporre le statue a rischiosi ed inutili spostamenti.
Sperava, Firenze, di poterli avere per sempre? Sicuramente. Ma le cose andarono in ben altro modo. Il Quirinale, quindi il Presidente Pertini, volevano averli a Roma. Impossibile opporsi, ovviamente. I Bronzi partirono per Roma nel giugno dell’81. L’esposizione al Quirinale durò 12 giorni, e i visitatori che ammirarono i due guerrieri furono circa 200mila. Una cosa mai vista.
A quel punto si scatenò la caccia ” ai misteri”, alle “origini”, ai “segreti” dei due guerrieri. Scrissero di loro 1300 giornalisti, storici dell’arte, critici di ogni parte del mondo. Fu scritto che questi due personaggi arrivati dal nostro passato erano ” simboli di una nuova era”, dove la pace e la bellezza avrebbe dominato il mondo intero. E proprio questo “ruolo simbolico”, rischiò di farceli portar via addirittura per due anni.
Qualche uomo politico, preso dall’entusiasmo, si era lasciato andare a una promessa. I Bronzi potevano volare negli Stati Uniti dove, nell’84 a Los Angeles, si sarebbero disputate le Olimpiadi. Sarebbero rimasti là, un paio d’anni, per farsi ammirare dagli americani e poi avrebbero rappresentato il “punto di unione” fra le antiche olimpiadi e le nuove, fra la Grecia e l’America insomma.
Le polemiche furono durissime. L’accusa che si scambiavano i sostenitori del pro e quelli del contro, era sempre la solita: provincialismo.
Provinciali, infatti, erano considerati coloro che si opponevano al viaggio perchè non si rendevano conto di come certi capolavori sono “patrimonio dell’umanità” e quindi portatori di “un messaggio civile ” utile a tutti i popoli. Per contro, provinciali venivano definiti anche coloro che insistevano per il viaggio, in quanto “servili” nei confronti del potere economico, e ignoranti al punto da considerare le opere d’arte come “pacchi postali”.
Per fortuna a risolvere la diatriba furono gli studiosi ed i restauratori fiorentini. Dissero, con una riflessione sottile, che una statua greca parcheggiata a Los Angeles o New York, sarebbe stata ” un oggetto degno di stupore ma non di certo una occasione culturale”, perchè ciò è possibile solo inserendo l’oggetto nel suo contesto naturale.
Vero, non vero? Sicuramente utile a trattenere i guerrieri al di qua dell’Atlantico. Queste argomentazioni furono prese per buone, sopratutto quando a sostenerle scesero in campo anche studiosi francesi e tedeschi che ci vennero a dire che per comprendere a fondo certi prodigi artistici occorre inquadrarli nelle loro sedi naturali.
Partirono da Roma, e invece di tornare a Firenze, come tutti i fiorentini speravano, presero la strada del profondo Sud, fino a Reggio Calabria. La cosa fu accolta da alcuni con sollievo. Scriveva in quei giorni Luigi Malerba nel Corriere della Sera “Li hanno portati via da Roma, finalmente. Di notte e di nascosto per sfuggire alla furia delle Erinni, ma se precipitassero in mare un’altra volta sarei proprio contento. Il loro posto è in fondo al mare , di là sono venuti e là vorrei che ritornassero, quei due esibizionisti. Che siano belli nessuno lo nega. Ma c’è la bellezza dell’opera d’arte e c’è la bellezza fisica”.
Raffinata distinzione, non c’è dubbio. Ma che scatenò, giustamente, le ire di molti critici d’arte. Alcuni dei quali replicavano a simili riflessioni con questi argomenti. “Tutti hanno diritto di dire se una cosa piace e non piace. Ma se il motivo della distinzione è nel successo che la cosa stessa ha per il grosso pubblico, allora dietro il giudizio si nasconde l’ipocrisia, o meglio una sorta di snobismo del quale sono piene le nostre università e le nostre case editrici”.
Insomma, arrivati qui come simbolo del passato che viene ” a illuminare il presente” i due Bronzi riuscirono più a dividere che ad unire. Tanto che alcuni parlarono della “maledizione dei bronzi”, sull’esempio delle pretese maledizioni dei sarcofagi etruschi o delle piramidi egizie.
Dividere anche Firenze da Roma. Ovvero i restauratori fiorentini e l’Istituto centrale del restauro, che nei primi mesi del 1993 decise di intervenire sui due Bronzi per vuotarli interamente delle terre di fusione. Il tutto doveva avvenire utilizzando sonde e minitelecamere, fatte entrare nel corpo dei bronzi da un minuscolo foro posto nel tallone. Per questo intervento, i bronzi furono distesi su una “culla antisismica ” che ne avrebbe permesso la mobilità, e nello stesso tempo li avrebbe preservati da qualsiasi evento sismico.
Il tutto, per evitare che i visitatori fossero privati della vista dei guerrieri, doveva avvenire a Reggio Calabria dentro una sorta di urna trasparente, così che tutti vedessero dall’alto i restauratori al lavoro. Insomma un restauro “a vista”, che non esaltò nè poco nè punto i restauratori fiorentini. I quali, durante 26 mesi, tanto durarono gli interventi dell’Istituto centrale del Restauro, non mancarono di esprimere le loro perplessità.
Ne valeva la pena? I romani, interessati, giurarono di sì. Le terre di fusione, a loro dire, avevano dimostrato che la statua A, quella più bella a giudizio delle visitatrici, quella più forte e più virile, sarebbe stata fusa in un luogo diverso e quindi da mani diverse dalla statua B. Per fondere i due eroi, sarebbe però stata usata una tecnica simile, la tecnica detta ” diretta”. Ovvero, intorno ad un’anima di metallo erano stati arrotolati fogli d’argilla rinforzati da peli di animale, salvo dar forma al tutto usando la cera e quindi la fusione.
Ottimo, e tuttavia, l’occasione del restauro ” a cielo aperto” aveva riaperto il vaso delle polemiche anche sulla definitiva sistemazione dei “guerrieri”. I restauratori, infatti, avevano notato quanto pochi fossero i visitatori a Reggio. A Firenze i bronzi avevano accolto fino a 18 mila persone al giorno, con una media di 10mila. Al Quirinale i visitatori erano stati ancor di più. In Calabria, invece, i visitatori mensili non arrivavano a 8 mila, con un calo costante che aveva portato il numero a 4 mila, scolaresche comprese, nel 1995.
Un altro tipo di polemiche fu di ordine scientifico. Gli studiosi tedeschi, che per primi avevano studiato le terre di fusione tolte a Firenze, e con loro il restauratore fiorentino Edilberto Formigli, si erano convinti che la statua A veniva da Atene e la B da Corinto. Il tutto dopo aver confrontato le terre tolte ai bronzi con quelle delle due località greche, dove per anni erano stati fatti saggi e ricerche. Quindi, a loro giudizio, non c’era bisogno di ulteriori “scavi” all’interno delle statue, fosse pure con sofisticati strumenti.
“Il fatto di dire che dentro le statue di bronzo in un certo senso ce ne sono altre ricavabili dalle terre di fusione, che insomma dentro la statua ce n’è un’altra creata sovrapponendo strati di terra, così come hanno lasciato credere i restauratori dell’ Istituto centrale di restauro, è assurdo, dichiarò ai giornali Edilberto Formigli, mi sembra una trovata pubblicitaria più che una valutazione scientifica. I due guerrieri sono statue. Non matrioske”.
Formigli, con l’occasione, dette finalmente una risposta anche alla mancanza delle lance e degli scudi. Mancanza che aveva fatto sospettare un trafugamento, un commercio verso l’America. Non trovandole, infatti, dopo il ritrovamento del ’72, alcuni avevano supposto che fossero state raccolte in un primo momento e vendute all’estero , per poi “far finta” di trovare le due statue che non potevano essere trasportate _ vista la mole _ senza dare nell’occhio. Ebbene, Formigli spiegò che il “giallo ” non era affatto tale: “Nei punti destinati a sostenere le armi, disse durante un’intervista ad un giornale cittadino, erano incrostazioni vecchie di secoli, del tutto simili a quelle trovate anche all’interno della statua. Quindi, le statue e gli scudi erano stati tolti ai guerrieri prima del viaggio in mare. Probabilmente per meglio stivare le statue e non correre il pericolo di rovinarle”.
Secondo i restauratori fiorentini, quindi, togliere la totalità delle terre di fusione non avrebbe aiutato i Bronzi a star bene, ma semmai li avrebbe sottoposti al rischio di ulteriori danni.
Fu l’ultima, durissima polemica. Dopo di allora i Bronzi, ritornati nella loro Calabria, ripresero a sonnecchiare in attesa di visitatori. In certe giornate vedevano solo il custode, in altre una scolaresca urlante. Certo, il momento di grande notorietà è finito. Ma pare che dal 2000 ad oggi il numero dei visitatori sia ripreso. Si è assestato a circa 60mila persone l’anno. Non tantissime, certo, ma comunque accettabili.
Resta il fatto che Firenze ancora ricorda i suoi bronzi con nostalgia. Vent’anni fa , grazie a loro, il mondo intero aveva scoperto che la bellezza nell’arte è davvero un patrimonio di tutti. Le masse, avevano dimostrato di saper valutare e scegliere per proprio conto. Tutto questo era avvenuto a Firenze. E allora, come non rimpiangere i meravigliosi ospiti di quei giorni, arrivati nella nostra città dopo un viaggio di 2500 anni?
CAPITOLO 6
L’Alluvione di Firenze

L’Arno al ponte a Santa Trinita
Il 14 novembre del ’66, dieci giorni dopo la tragica alluvione, il Lions Firenze aveva in programma una normale riunione sociale. Fu rinviata, naturalmente, perché la sua sede sociale del tempo, L’Hotel Villa Medici di proprietà del Socio Milo Kraft, fu sommersa dall’acqua. La città era ancora nella più assoluta emergenza, le strade erano piene di fango, le idrovore ancora non erano riuscite a vuotare per intero negozi, magazzini e scantinati. Molti dei soci erano stati colpiti in prima persona. Nelle loro case, nei loro affari, nei loro commerci. E tuttavia, già il 28 novembre, il Lions Club Firenze riuscì a organizzare un incontro, molto più informale del solito, fra i suoi iscritti. Il presidente Sergio Giachetti voleva far sentire alla città la presenza, il sostegno del Lions, che non a caso era nato 13 anni prima con il preciso intento di “Servire”.
Fu una riunione difficile quella del 28 novembre. Una riunione nel fango. Ma nello stesso tempo fu una riunione dove la razionalità prevalse sulle emozioni. Il Lions, in quell’occasione, individuò due forme di intervento. Si pensò di agire per il restauro delle opere d’arte, e nello stesso tempo per fornire aiuto e ospitalità alle centinaia di ragazzi che ogni giorno arrivavano qua da tutto il mondo per aiutare Firenze a sollevarsi. I fiorentini li avevano battezzati “ Angeli del fango”. Dormivano in luoghi di fortuna, formavano catene umane per estrarre dall’acqua i volumi della Biblioteca nazionale, estraevano dal caos di magazzini alluvionati quadri, antiche ceramiche, intarsi, e quant’altro Firenze possiede anche senza saperlo.

Gli angeli del fango al lavoro nella Biblioteca Nazionale
Fu chiaro, dunque, al Lions, che Firenze doveva far partire la sua rinascita proprio dall’arte e dalla cultura. Non ci sarebbe stata resurrezione, se il più grande capitale cittadino, gli oggetti d’arte, quelli che avevano fatto arrivare fin qui gli “Angeli del fango” non fossero stati recuperati in tempi brevi.
Il 12 dicembre, il Lions Firenze tornò a riunirsi per prendere ulteriori iniziative a favore di questi ragazzi. Si trattava di ringraziarli, ovviamente, di dare loro dei riconoscimenti. Si avvicinava Natale, e nell’arco di un paio di settimane gran parte di loro sarebbero tornati a casa.
Tutto questo fu fatto durante l’emergenza. Ma l’impegno del Lions per Firenze alluvionata, sarebbe continuato negli anni. Nei primi tempi, ci furono numerosi interventi a favore dei quartieri artigiani rimasti sotto il fango, in primo luogo Santa Croce. Poi fu deciso di contribuire al restauro di una grande opera fiorentina. Fu scelta Piazza Signoria. Il Lions si offrì di provvedere ad una nuova pavimentazione. Suggerì di ripristinare il cotto come in epoca granducale. Non sapeva, non poteva sapere, quali enormi polemiche avrebbe suscitato questa sua proposta. Una volta di più Firenze si divise fra chi voleva il cotto e chi la pietra. Le polemiche andarono andati per vent’anni e in parte continuano ancor oggi.
Il Club aveva tredici anni di vita e nei primi anni di attività si era molto dedicato a tessere una rete di rapporti con altri Club in Italia ed in Europa. Basti pensare che il Socio Fondatore Carlo Barbaia, trasferitosi per lavoro in Germania, a Francoforte sul Meno, vi aveva fondato un Lions Club, o che il Lions Club Firenze aveva sponsorizzato quello di Avignone. Tanti erano i Club Toscani promossi dai Lions fiorentini, e fu naturale che di fronte a questo tragico evento, immediata e generosa fosse la risposta dei tanti amici che il Club si era fatto ed aveva ospitato ad esempio nelle “Giornate fiorentine” organizzate in occasione del Maggio Musicale. Fu un fiorire di iniziative e di attenzione verso Firenze e del resto chi ha vissuto quegli anni ricorda l’orgoglio con cui i cittadini si rimboccarono le maniche e risollevarono le loro attività trasformando una calamità in un’opportunità.
I Fondi raccolti furono l’anno seguente utilizzati per restaurare la Fontana del Buontalenti posta sulla terrazza degli Uffizi, ma anche in questo caso fu un segnale dato da un gruppo di privati cittadini alle autorità ed alle istituzioni economiche, la figura dello Sponsor, che oggi è scontato, ma che allora muoveva i primi passi e faceva notizia.
Qual’ era la situazione di Firenze a un mese dall’alluvione del ’66? Quali bilanci, quali prospettive, quali problemi? C’erano volute settimane di lavoro, anche solo per capire cosa fosse successo nei musei, nelle biblioteche, nei magazzini delle gallerie. Ma ormai erano chiari i danni che aveva riportato il patrimonio artistico della città. In Santa Croce, raggiunta da sei metri di acqua, erano state alluvionate le grandi tombe. E nonostante l’impegno di alcuni inservienti, che avevano miracolosamente evitato danni maggiori, era rimasto duramente danneggiato il Cristo del Cimabue. Il cenacolo del Gaddi e la Cappella dei Pazzi, ugualmente erano finiti sotto metri di fango.
Agli Uffizi, un manipolo di coraggiosi guidati dal soprintendente Ugo Procacci, da Luisa Becherucci e da Roberto Baldini che in seguito si rivelerà un autentico “mago” per i più difficili interventi di restauro, affannosamente era riuscito a salvare decine e decine di opere. Erano le più preziose, le più note. Ma almeno altrettante, sia pure di autori meno noti, erano state raggiunte dall’acqua.
Non era stato possibile evitare il contatto con l’acqua e con il fango, per chilometri e chilometri di scaffalature ripiene di volumi della Biblioteca nazionale. Titoli in gran parte rari, se non unici. Manoscritti, incisioni, litografie, pergamene. Una parte dei quali sono ancora in attesa di restauro.
L’elenco dei musei e dei luoghi sacri della nostra coltura, colpiti quella notte dalla furia dell’Arno, ancora oggi fa rabbrividire. Finirono sotto l’acqua melmosa il Museo della Scienza, il museo Bardini, il Bargello, l’Opera del Duomo, la chiesa il convento e il chiostro di Ognissanti, il cenacolo di San Salvi, Santa Maria Novella, le Cappelle medicee, Palazzo Medici Riccardi.
Era possibile calcolare, in denaro, la consistenza dei danni subiti? Non fu possibile allora e non lo è oggi. Si sa solo che il mondo intero rabbrividì. Firenze, lo sappiamo, possiede una percentuale altissima del patrimonio artistico mondiale. E il mondo intero si mobilitò per tentarne il recupero. Un documentario fantastico, quello di Zeffirelli, fatto circolare dalle maggiori Tv negli Stati Uniti, fece capire ovunque la gravità dei danni.
L’Arno era uscito dagli argini verso le una della notte fra il 3 e il 4 novembre. La piena era salita ininterrottamente per circa 12 ore, ma alle 6 del pomeriggio aveva cominciato a calare, e in un silenzio tragico e assoluto, aveva permesso di intravedere i danni. Le auto erano accatastate, una sull’altra, al centro delle strade. Non c’era acqua potabile, né energia elettrica, e dalle finestre anziani chiedevano qualcosa da mangiare, un po’ di latte. Fu allora che Firenze seppe dimostrare la sua forza. Furono gonfiati semplici canoe da spiaggia. Furono allestiti i pochi gommoni che esistevano in città. Ed un corteo di uomini e ragazzi, arrivando dalle zone risparmiate dall’acqua, dove era stato possibile panificare, si avventurò, era ormai notte, nelle strade più colpite distribuendo cibi, medicinali, quanto era necessario ai concittadini più colpiti.
La gente si era radunata ai piani alti. Chi non era stato raggiunto dall’acqua, aveva accolto nella propria casa i meno fortunati dei piani inferiori.
Una solidarietà assoluta. Il tutto mentre Roma ancora non capiva cosa fosse successo, nonostante che un giornalista della sede Rai di Firenze, Marcello Giannini, bloccato dall’acqua d’Arno nel suo posto di lavoro, per ore e ore raccontasse in diretta quanto stava accadendo, lanciando allarmi e chiedendo comprensibile aiuto.
L’indomani, mentre gli aiuti esterni ancora non arrivavano, un esercito di artigiani, operai, casalinghe, studenti, si ritrovò silenzioso in strada. Con l’acqua ed il fango a mezza gamba, si ritrovò a spalare in modo che almeno le strade tornassero utilizzabili e potessero muoversi i soccorsi.
Ogni parrocchia, ogni Casa del popolo divenne un luogo di raccolta di energie e di aiuti che immediatamente venivano ridistribuiti nel territorio. Ma il luogo maggiore di raccolta era, ovviamente, Palazzo Vecchio. E qui, nel grande cortile, senza neppure una maschera o un paio di guanti, decine di ragazzi si ritrovarono a scaricare i camion carichi di pane o di frutta, o di quant’altro generosamente avevano spedito fin là dalla campagna circostante.
Per due giorni, non ci fu altra forma di reazione se non col coraggio dei singoli. Eppure, in quei due giorni, Firenze sopravvisse. Senza isterismi, senza inutili lacrime. Semplicemente rimboccandosi le maniche, in un clima di solidarietà esemplare.
Venne nei giorni seguenti il presidente Giuseppe Saragat, percorreva le strade sopra un mezzo militare, mentre la gente spalava, e quando chiese cosa poteva fare per aiutarci si sentì rispondere: “Scendi di costassù, e viene a darci una mano”.
Vennero anche il presidente del consiglio Moro e il pontefice Paolo VI. Gli aiuti cominciarono ad arrivare, ma era chiaro che i fiorentini, orgogliosi, volevano fare il più possibile con le loro mani. Uomini come Piero Bargellini, Luciano Bausi, Ugo Procacci, Carlo Ludovico Ragghianti, dettero in quei giorni una dimostrazione di affetto incommensurabile per la vicenda umana ed umanistica di Firenze.
Vennero grandi personalità dall’estero. L’Unesco costituì un comitato a favore di Firenze alluvionata e un altro nacque negli Stati Uniti, presieduto dalla signora Jacqueline Kennedy. Ma forse, la persona che più agì, concretamente, nel tenere i collegamenti tra i palazzi romani e le necessità dei fiorentini fu Enrico Mattei, il direttore del giornale La Nazione.
Nei suoi uffici, nella redazione alluvionata di un giornale che da pochi mesi era stato inaugurato in via Paolieri, Mattei compì svariati miracoli. Il primo fu quello di non far mancare ai fiorentini il loro giornale. La rotativa era alluvionata, così i giornalisti de La Nazione raccoglievano le notizie e il materiale che potevano fino alle 5, alle 6 del pomeriggio. Poi, con un pullman si trasferivano a Bologna, dove, nella sede del giornale gemello, il Resto del Carlino, confezionavano fino alle 3 di notte La Nazione. Tornavano poi a Firenze quasi all’alba, con un pullman che portava anche le prime copie stampate. Andarono avanti così per vari mesi.
Era fondamentale che la gente fosse informata, ogni giorno, delle decisioni degli amministratori comunali, di quelle del governo, delle ordinanze sanitarie, di come il territorio della Regione _ l’Arno aveva colpito duramente in tutto il suo corso, ed altri fiumi, come l’Ombrone in Maremma, avevano superato gli argini nella notte del 4 novembre _ stava reagendo.
Per Mattei, però, il giornale rappresentava anche un’altra cosa. Gli permetteva di “sturare gli orecchi “ – così amava dire ai suoi più stretti collaboratori – a ministri e sottosegretari. La Nazione riuscì a far ascoltare nella Capitale le esigenze dei fiorentini. E fu grazie alle battaglie di Mattei e di Bargellini, se pochi giorni dopo l’alluvione fu data una piccola cifra a fondo perduto ad ogni commerciante. Doveva servire, più che a far ripartire la loro attività _ ci voleva ben altro _ ad aiutarli psicologicamente, a farli sentire meno soli.
Ebbene, a riconoscere il ruolo di Mattei _ che fiorentino non era ma che da Firenze era stato stregato, così come anni prima era successo a La Pira _ fu proprio il Lions Firenze. Che il 23 gennaio lo invitò a tenere una conversazione ai propri soci. Una serata il cui titolo da solo dimostra le intenzioni di quei giorni : “Dopo l’alluvione, Firenze meglio di prima? “ Questo venne a dire Mattei, instancabile protagonista di quei giorni. A neppure tre mesi dalla tragica notte, già si pensava a come migliorare Firenze, così drammaticamente risvegliata nel suo orgoglio per colpa dell’Arno.
Si discuteva, in quei giorni, su come regimare una volta per tutte le acque del fiume. Che, si era scoperto nostro malgrado, non era nuovo a scempi ed alluvioni. La più nota era stata quella del 1333, la descrive un cronista dell’epoca, Giovanni Villani, che si era portata via il Ponte Vecchio, costringendo i fiorentini a costruirne un altro, quello che è ancor oggi al suo posto.
Di altre alluvioni scrivono Bernardo Segni, Scipione Ammirato, Targioni Tozzetti. Fra il ‘330 ed il ‘700, almeno due volte per secolo la città dovette fare i conti con l’acqua d’Arno. Nel 1844, i danni furono così gravi che perfino il Granduca dovette impegnarsi in prima persona per salvare i suoi sudditi.
L’ultima alluvione in ordine di tempo si era avuta nel 1944, con i ponti ancora distrutti dai tedeschi in fuga, così che le macerie avevano fatto “diga” sulla piena, e fermando le acque avevano favorito il superamento degli argini.
Regimare, dunque, ma come? Ci furono quasi subito delle proposte operative. Si pensava ad una serie di invasi successivi che avrebbero dovuto trattenere le acque dal Valdarno sino a Firenze. Una sorta di laghetti semivuoti, da allagare in caso di necessità. Questo proponevano gli ingegneri De Marchi _ Supino, ma i politici avevano altre idee. Non ultima quella di fare un grande lago sulla Sieve, il maggior affluente dell’Arno, all’altezza di Bilancino. Ovviamente, sui tecnici, alla fine prevalsero i politici e le loro esigenze. Che era difficile capire quali fossero, dal momento che i costi di Bilancino furono enormi.
I problemi per la Firenze di quei giorni non erano, però, legati solo all’Arno. L’alluvione aveva distrutto interi quartieri, distrutto un tessuto sociale ed economico, cambiato radicalmente l’economia cittadina in San Croce come in San Frediano.
Gli artigiani, in grandissima parte alluvionati, in molti casi abbandonarono le vecchie botteghe, al loro posto fin dal Rinascimento. Andarono a vivere e lavorare altrove. Nelle città satelliti che stavano nascendo, in quegli anni di boom economico ma anche di grandi speculazioni edilizie, tutto intorno a Firenze. Se ne andavano le attività economiche e con esse anche i cittadini, la gente più semplice, i fiorentini più autentici. Questo problema apparve chiaro fin dai primissimi mesi.
Come evitare l’emorragia di attività economiche, che già nei primi giorni apparve chiara? Occorrevano scelte coraggiose, che non furono fatte. In quei primissimi anni, ma ancor più nel decennio a venire, quando ci furono anche i fondi per poter ridisegnare la realtà cittadina, e invece si preferì congelare l’esistente. Senza strade di circonvallazione _così che oggi moriamo di traffico _ senza licenze edilizie che permettessero ai vecchi santacrocesi o sanfredianini di costruirsi un bagno decente nelle loro case. Tutto fermo, tutto bloccato. Così che quando i permessi arrivarono, la proprietà di interi palazzi era passata ad altri. Spesso grandi società, in qualche caso grandi società con capitale estero. Che hanno trasformato la Firenze più autentica in un alveare di monolocali per turisti che arrivano qui per una settimana e poi ripartono.
Non meno grave, fu il diverso rapporto che ormai si era instaurato tra i fiorentini ed il loro fiume. Era sull’Arno, era grazie all’Arno che era nata Firenze. Un fiume che per un verso la difendeva nel versante Sud, per l’altro le dava ogni forma di vita. Oltre all’acqua e alla sabbia per le costruzioni, l’Arno era forza motrice per mulini, gualchiere e perfino di gioia e di festa. Sul fiume si svolgevano, già nel Medio Evo, alcune delle feste più importanti. E per contro nel fiume finivano gli scarichi delle concerie, mentre le lane venivano messe ad asciugare sul greto, dove l’insolazione era più alta che altrove.
Ancora nell’800, l’Arno veniva risalito da barcaioli che portavano in città le loro merci, trainando le barche dalle sponde con delle lunghe cime. E nello stesso tempo, dall’Arno, scendevano verso la città barche cariche di mercanzie del Casentino. O addirittura, tagliati sui boschi della Verna, tronchi d’albero interi, che servivano per innalzare nuove case, elementi strutturali di una città in continua espansione.
Nel Novecento, poi, l’alleanza tra il fiume e i fiorentini era stata ancor più profonda. Negli anni Trenta, davanti ai grandi alberghi di Ognissanti, la motonave Fiorenza offriva ai turisti serate musicali, squarci di un irripetibile paesaggio e cene mondane. Mentre i ragazzini imparavano nel fiume a giocare con l’acqua o perfino a nuotare. Tanto che alcuni di loro, quelli di Gavinana, proprio nel fiume fondarono una società sportiva di altissimo livello, la Rari Nantes, che riuscì ad imporsi _ nella pallanuoto ad esempio _ contro società di rinomate località marine.
Nel fiume, su una barchetta a nolo, nascevano amori con la scusa di una remata fra due ponti. E dal fiume traevano sostegno pescatori, renaioli, traghettatori, che si muovevano sopra barche dal fondo piatto, spesso mosse da pertiche, i “barchini”, che furono portati via a decine dalla furia dell’Arno.
Ecco, l’alluvione ci tolse, una volta per tutte, la vita sul fiume. L’alleanza tra Firenze e l’Arno, che per secoli si era rivelata un’alleanza vincente, si era adesso trasformata in “sospetto”. All’Arno si pensava soprattutto come a un pericolo per le inondazioni. E di conseguenza, non ci si preoccupava neppure di costruire depuratori degni di questo nome. Tanto
Il fiume era considerato ormai una fogna. E tale è rimasto ancor oggi, nonostante i mille progetti per rivalutarlo.
CAPITOLO 7
La Moda a Firenze

Le mogli dei Soci posano con i loro splendidi abiti in occasione della Charter Night
C’era mondanità, nelle prime riunioni al Lions Club Firenze? A vedere la foto della charter night, quella ufficiale, con i signori in smoking e le signore con stole sulle spalle nude, si direbbe di sì. Ma sarebbe un giudizio parziale, anzi, inesatto. Agli occhi di oggi quella è mondanità, ma non lo era nelle abitudini di allora. Con lo smoking si facevano affari, si faceva cultura, si faceva politica. E la cura per gli aspetti formali era in grandissima parte contenuta. L’obiettivo del Lions Club Firenze era “Servire”. Per farlo occorreva prima ancora conoscere. Fu per questo che il Lions fin dagli inizi guardò con attenzione tutta particolare alle prime sfilate di Alta Moda nella nostra città.
Il 27 gennaio del ’55, al Grand Hotel, i soci del club organizzarono il primo “Ballo della moda” della loro storia. Lo ripeterono l’anno successivo in occasione delle “ Giornate di alta moda” che si tenevano a Pitti. La consuetudine andò ancora avanti nel ’57 e nel ’58, sempre in concomitanza con le sfilate a Pitti. Dopo di allora, i “balli della moda” al Lions non furono più ripetuti. Il motivo? Davvero non ce n’era più bisogno, non aveva più senso sostenerle. Le indossatrici fiorentine ormai si muovevano con le loro gambe. Disinvolte, apprezzate, affascinanti.
Era nato, il Lions Club Firenze l’aveva capito, altri in città stentavano a farlo, un fenomeno destinato a crescere e portare denaro e prestigio a Firenze e in Italia, almeno per i 50 anni seguenti.
Stretto era sempre stato il legame tra il Lions Club Firenze e il settore della moda, intesa come occasione di export verso i mercati Americani che all’epoca erano i più ricettivi del nostro gusto. Anche in questo caso tra i primi Soci fondatori ritroviamo Ildebrando Weber, industriale della Paglia e Rupert Maino, antesignano della categoria dei Buyer, che negli anni successivi faranno la fortuna degli artigiani fiorentini. Nel 1954 entrano nel Club Camillo Borgna, e Mario Leone, il primo dopo un’esperienza direttiva presso primari gruppi tessili nel Nord, fonderà a Firenze un’azienda di tessuti per la casa, il secondo, noto per la sua successiva carriera politica, che lo portò a diventare Presidente della Regione, in realtà era a capo di un’industria di valigeria e pelletteria. Come si vede il Club presentava quindi un terreno fertile per accogliere e far crescere un personaggio come Franco Tancredi. E’ a lui che si deve la nascita del Centro Moda, come è a Camillo Borgna che si deve, dopo l’esperienza della mostra Tessuto Uno a Palazzo Strozzi, l’idea di creare Pitti Casa, una mostra che ha esaltato la tradizione del tessuto produttivo fiorentino proiettandolo a livello internazionale. Più volte, negli anni, la moda tornò con tutti gli onori nelle serate del Lions. Il 25 maggio del 1980 il Club accolse in un abbraccio simbolico Maria Grazia Gherardini, Chiara Boni, Emilio Pucci, Vittorio Rimbotti, Vittorio Napoleone. Il 23 marzo del 1996 proprio Camillo Borgna intrattenne i soci sulla evoluzione della moda tra le due guerre mondiali, momento cruciale nella mutazione dei costumi, ed infine il 26 aprile 1999, fu resa, in una serata piena di commozione, un omaggio alla Maison Pucci che, dopo la scomparsa del fondatore Emilio Pucci è passata nelle sapienti mani della figlia Laudomia.
Firenze era uno scenario irripetibile, senz’altro. Ma se non ci fossero stati, operativi, attivissimi, geniali, un gruppo di fiorentini capaci di trasformare la bellezza in denaro _ e viceversa _ di certo questi successi sarebbero mancati. E lo scenario sarebbe rimasto vuoto.
Tutto era cominciato ad Hollywood, ovviamente. Che fabbricava sogni per il mondo intero, impegnata com’era a costruire una realtà parallela dove si potessero immergere le ferite della guerra. Hollywood costruiva personaggi, miti, uomini e donne che la gente comune considerava stelle. Erano il prototipo al quale ispirarsi nel parlare, nel vestire, nel muoversi. Erano loro che indicavano i parametri della società nascente. Uno sbruffo di coniglio bianco o una vestaglia alla Jean Harlow, avrebbe avuto milioni di emulatori in ogni continente. Tutti copiavano Clarke Gable nel portarsi alle labbra una sigaretta, tutte cercavano di assomigliare a Linda Christian.
Ebbene, che c’entrava l’Italia con quel mondo?
Accadde che un po’ grazie ai nostri registi, un po’ grazie alla capacità dei nostri tecnici, quelli di Cinecittà, fra Hollywood e Roma nascesse un rapporto più che privilegiato. Le star, trascorrevano spesso “Vacanze romane”. E qui trovavano ad attenderle una cucina tipica, un bel cielo, un’infinità di sarti e di sartine per rivestirli. D’accordo, la moda, la gran moda di quegli anni era francese. Punto e basta. Ma un po’ alla volta gli italiani, utilizzando il cinema come veicolo per le loro idee, trovarono lo spazio per proporre e in certi casi imporsi.
Accadeva in quei giorni _ siamo nel 1950 e l’Italia è ancora un paese di mezzadri e Ladri di biciclette _ che un fiorentino di nome Giovan Batista Giorgini organizzasse prima nella sua stessa casa di via dei Serragli, a Villa Torrigiani, l’anno seguente al Grand Hotel, e dal luglio del 1952 nella mitica “sala bianca “ di Palazzo Pitti, le prime sfilate della Moda italiana.
Giorgini era un “commissionaire“ come si diceva in quei giorni, e guarda caso con un termine francese. Aveva avviato con successo, subito dopo la guerra, un ufficio acquisti che da Firenze orientava una rete di compratori mondiali verso i migliori produttori italiani di pelletteria, ceramiche, vetri, e un po’ alla volta anche di maglieria.
Fu proprio questo settore che dilagò nel mondo, perché l’estro, il buon gusto, la scelta della trama e dei colori, presto ebbe ragione nei mercati mondiali su stoffe e tonalità tradizionali. Un po’ alla volta, accadde, dopo che l’America aveva cominciato a guardare con interesse all’abbigliamento italiano. Che si contrapponeva all’antiquato modo francese di vestire per la sua freschezza, per il suo modo d’essere giovane e sexy.
Fra i clienti di Giorgini erano i migliori grandi magazzini di New York. E a loro si rivolse, il fiorentino, annunciando che dopo le prestigiose sfilate parigine d’alta moda, a Firenze si sarebbe svolto un evento di grande rilevanza nello stesso settore. Aveva, infatti, capito che, con la guerra, era anche finita una società. Ormai stava per imporsi il Pret a porter, e non poteva essere altrimenti, visto che la produzione in serie si era già imposta in tutti gli altri settori del viver quotidiano, o almeno stava per farlo.
Giorgini riuscì a far venire a Firenze alcuni dei più grandi compratori di New York e di Montreal. A loro presentò la “Moda italiana” che fino a quel giorno era stata rappresentata da Ferragamo per le borse e le scarpe, da Emilio Pucci e da Simonetta Visconti nell’abbigliamento, ma proprio per questo era considerata il risultato di alcune, poche, menti creative, non certo una scuola che potesse minimamente confrontarsi con la tradizione francese. Il primo giornale americano che dette notizia della nascita della moda italiana fu Women’s Wear Daily”. Ma già dopo pochi mesi ad occuparsi del fenomeno erano il mitico Herald Tribune, e la rivista Vogue.
Vale la pena di rileggerle le cronache su La Nazione di quei giorni. E’ martedì 22 luglio 1952, e sul giornale cittadino appare questo articolo a firma di Mario Bucci: “Fin dal superbo scalone gli armigeri in giubba e braghettoni del Cinquecento, a strisce gialle e rosse, davano il tono a tutta la serata. Fermi, impalati, solidi sulle due gambe un po’ divaricate, sembravano statue, manichini; vivi soltanto per qualche goccia di sudore che imperlava le fronti abbronzate, quasi truccate. Poi, l’ingresso, nel brusio scintillante della Sala Bianca, coi grandi lampadari di Boemia leggermente oscillanti per la brezza; un brusio strano, a base di “please”, “tank you” , e di “excuse me”, come una musica di sottofondo, quando si accordano ancora gli strumenti. Ad un tratto la voce cantante dell’annunciatrice; e il silenzio si fa improvviso, quasi si fosse sentito il rumore di una bacchetta…. In quella atmosfera rarefatta, come di attesa di un miracolo, la sfilata delle indossatrici ha avuto inizio lungo la pedana, sotto due baldacchini sospesi al soffitto che mandavano sui loro passi e sulle loro movenze musicali una luce irreale, da ribalta”.
Tutto questo avveniva nove mesi prima della nascita del Lions Firenze. Sindaco della nostra città era La Pira, che rappresentava per molti versi la novità. Ma a Napoli era sindaco Achille Lauro, e rappresentava senza ombra di dubbio la conservazione, anzi la paura del nuovo.
Gli Stati Uniti erano in pieno maccartismo, e l’Argentina stava per piangere la scomparsa, quasi fosse una santa, di Evita Peron. Questo era il mondo nel quale, un fiorentino geniale, dette inizio ad un business che oggi si calcola in miliardi di dollari o di euro.
La stampa italiana dette il massimo risalto all’avvenimento fiorentino, segno che in molti avevano compreso quali prospettive ne potevano nascere. Il Corriere della Sera gli dedicò un gran titolo a firma di un prestigioso inviato, la rivista Epoca affidò la cronaca dall’avvenimento ad una giovanissima ma molto promettente redattrice, Oriana Fallaci, mentre gruppi hostess accompagnavano ai loro posti i 350 spettatori, altrettanti possibili acquirenti, il fior fiore del commercio mondiale e dell’abbigliamento.
I clienti erano arrivati Firenze partendo dagli Stati Uniti, e quindi affrontando un viaggio micidiale, ma anche dalla Svezia, dall’Olanda, dalla Germania, dalla Svizzera, e ovviamente dalla Francia. Quella Francia dove ancora si stavano preparando i modelli per il prossimo inverno. Con una lentezza esasperante, come solo può avere chi è convinto che non esistano altri concorrenti.
A sfilare, a Firenze, furono nove case di moda, e vale la pena ricordarle, dal momento che sono passate alla storia non solo del costume, ma anche dell’economia italiana. Furono dunque Antonelli, Capucci, Carosa, Ferdinandi, Giovanelli Sciarra, Pollinober, Marucelli, Vanna, Veneziani.
Siamo, dunque, nel 1952. In quell’anno le nostre esportazioni rappresentavano il 6,1 del prodotto nazionale lordo contro il 21,3 della Francia. Ebbene, 30 anni dopo, proprio grazie alle esportazioni legate alla moda, l’Italia pareggerà il rapporto import _ export.
Come era riuscito Giovan Batista Giorgini ad intuire che era arrivato il momento di rischiare il buon gusto italiano sui mercati degli Stati Uniti?
La sua esperienza di acquisti per i grandi magazzini statunitensi era trentennale. Aveva cominciato nel 1921, a ventidue anni, comprando ceramiche e pelli ed altri oggetti di artigianato in gran parte fiorentino. Era arrivato a Firenze partendo dal Forte dei Marmi, dove la sua famiglia era proprietaria di alcune cave di marmo. Ma il suo cognome, assolutamente fiorentino fin dal Rinascimento, era illustre. Un suo trisavolo è sepolto in Santa Croce, un prozio che portava il suo stesso nome di battesimo, era stato collaboratore di Cavour, cognato di Massimo d’Azeglio, genero del Manzoni per averne sposata la figlia Vittoria, e comandante del Forte di Talamone. E proprio per questo rischiò di essere fucilato. Fu lui, infatti, a rifornire di armi i “Mille” che, sotto la guida di Garibaldi, stavano facendo rotta verso la Sicilia. Troviamo altri Giorgini nel battaglione di universitari pisani che partirono per la prima guerra d’indipendenza, altri nell’impresa dei “maiali” che distrussero le navi inglesi ad Alessandria d’Egitto nella seconda guerra mondiale. Insomma, ce n’è quanto basta per dire che i Giorgini hanno contribuito a scrivere una buona fetta della storia d’Italia. Ebbene, l’ultimo dei Giorgini il suo patriottismo lo dimostrò in altro modo, senza apparenti eroismi. Ma forse fu più utile al Paese dei suoi predecessori.
Come si era arrivati alla sfilata fiorentina? A dire il vero, Giorgini aveva prima provato a fare una sfilata al Brooklyn Museum di New York, ma l’impresa non era stata possibile. Nel gennaio del ’51, già avendo chiaro dove voleva arrivare, aveva creato a Firenze l’associazione “ Creatori Alta Moda Italiana Femminile”, con ciò volendo riunire le forze dei creatori di moda italiani in contrapposizione a quelli parigini.
L’esperienza, però, dopo pochi mesi era conclusa. Gli stessi soci, consideravano troppo ambiziosi gli obiettivi esposti da Giorgini. Lui chiedeva di essere innovativi, di “essere totalmente se stessi”. Loro trovavano più sicuro rifarsi in qualche modo ai canoni indicati dagli stilisti francesi e semmai di proporre a minor prezzo modelli analoghi.
Così, quando si trattò di sfilare a Firenze, le migliori, o almeno li più note sartorie italiane, si erano “defilate”. E a Giorgini non restò che presentare, ai migliori compratori del mondo, le “case emergenti” nel mondo italiano dell’abbigliamento.
Quale fu il risultato? Le riviste americane parlarono senza mezzi termini di “Sfida italiana alla moda francese” Ma poi aggiunsero anche osservazioni reali e non di poco conto. Ovvero, che gli abiti presentati a Firenze costavano la metà di quelli d’Oltralpe e che erano più agili, divertenti, meno “ingessati.”
Fin dalla prima sfilata in Sala Bianca, dunque, Giorgini aveva saputo portare un po’ d’Italia, o se preferiamo di Firenze, nei grandi magazzini d’Oltreoceano. Ma tutto questo non sarebbe stato sufficiente se, sempre Giorgini, non avesse creato una nuova “santa alleanza”. Quella fra il mondo della moda e i produttori di filati e di lane.
Fu proprio questo l’elemento nuovo per la sfilata del gennaio 1953. In quell’occasione, le manifestazioni fiorentine ebbero anche i primi “sponsor” come l’Ente Italiano Moda, di mussoliniana memoria, che aveva sede a Torino e che adesso cercava di rincorrere le iniziative di Pitti. Questo significò un minimo contributo da parte degli Enti Pubblici, quanto bastava perché Giorgini potesse mettere in bilancio un parziale rimborso per le case che partecipavano alla sfilata.
L’anno dopo entrarono nelle sfilate il comune di Firenze, la Camera di Commercio, gli industriali, l’Azienda autonoma del turismo e l’Ente del turismo che a fine della manifestazione costituirono il Centro di Firenze per la Moda italiana, un organismo che avrebbe avuto la responsabilità della manifestazione e avrebbe difeso l’iniziativa fiorentina contro i tentativi romani di farla propria. Anzi _ si direbbe oggi _ di scipparla, approfittando degli aiuti che Roma poteva contare nell’ambiente politico.
Presidente venne nominato Mario Vannini Parenti. A Giorgini fu lasciato il compito operativo. Nel gennaio 1955 le sfilate di Pitti già contavano su 500 compratori e 200 giornalisti accreditati. Erano, quindi, un evento mondiale. Ma proprio in quell’occasione, Giorgini fece circolare fra i presenti una sua lettera di ringraziamento e di saluto. Erano dimissioni. Forse utilizzate ad arte per ricomporre alcuni problemi interni che si erano venuti a creare.
La mossa ebbe il suo effetto. Le reazioni di sorpresa e di stima furono tali che Giorgini accettò di restare ancora sul ponte di comando. Ma intanto Roma accentuava il suo “tiro alla fune”. Voleva privare Firenze di questo incredibile fiore all’occhiello che aveva sempre più successo negli States. Nel 1957, alcuni giornali americani scrissero senza misure di “pandemonio della moda in Italia” e si riferivano proprio “al tiro alla fune ” che contrapponeva Roma e Firenze.
Per fortuna, pur tra mille problemi, l’esperienza di Palazzo Pitti potè continuare. Le cifre, infatti, parlavano chiaro. Le nostre esportazioni nel campo della moda erano passate dagli 80 miliardi del ’50 ai 171 del ’56 e ai 208 del ’57. Nessun altro settore di produzione aveva registrato un aumento di oltre il 150 per cento in sei anni.
Nel 1959 i compratori presenti alle sfilate erano diventati 600, e ancora crebbero nel 1960, quando ci si accorse che Giorgini era “scomodo”. E, infatti, da troppo tempo, il nobiluomo fiorentino insisteva perchè la città si dotasse di una aeroporto e anche di un Palazzo della Moda, avendo intuito che senza questi strumenti sarebbe stato difficile crescere ancora, o addirittura conservare quanto già ottenuto.
Forse per questo, l’incomodo Giorgini fu “retrocesso” gli fu data la vicepresidenza dell’organizzazione e niente più. E nel frattempo anche Milano si proponeva, con tutta la sua forza economica, come sede “naturale “ per la moda italiana.
Presidente dell’Azienda del Turismo per tutti gli anni Sessanta e del Centro Moda dal ’62 al ’65, Raffaello Torricelli ha più volte commentato perché non fu possibile, allora, costruire il Palazzo della Moda. Erano i giorni del piano regolatore di Edoardo Detti che aveva un’idea di Firenze come “città conclusa”. Quindi, se la moda doveva venire, e se aveva bisogno di un palazzo, che si costruisse altrove. Giorgini, invece, voleva che si costruisse alle Cascine, non lontano dalla stazione e dall’uscita dell’autostrada che stava arrivando. Aveva anche i soldi ed il sostegno di Guido Carli che all’epoca reggeva il ministero del commercio estero, ma fu inutile.
Intanto era cominciato il decennio del “boom “economico, e quindi, un numero sempre maggiore di persone si affacciava alla moda. Per questo legittima l’intuizione di Giorgini che sosteneva fosse arrivato il momento il momento di cambiare. Lui voleva: “ Qualcosa di meno dell’alta moda, e qualcosa di più della confezione in serie”. Questo fu il suo obiettivo di quegli anni, che non furono senza problemi. Nel ’65 Roma aveva lasciato a sfilare a Firenze solo gli stilisti della vecchia guardia. E toccò a Torricelli, che pure lo stimava enormemente, dire a Giorgini che il capitolo era chiuso, finita la sua era.
Cominciò, allora, un periodo davvero difficile. Che lo era in assoluto, con l’arrivo della contestazione giovanile e di modelli di vita che certo non avevano molto da spartire con le sfilate di alta moda. Ma lo era soprattutto per Firenze, perchè ogni anno si registravano defezioni da parte dei più importanti stilisti, mentre Milano, nel frattempo intervenuto sulla scena, raccoglieva consensi.
Per fortuna, il Pret a porter, restò inizialmente una prerogativa fiorentina. E dal 1967 entrò direttamente nella mitica Sala Bianca.
Fu allora che divenne presidente del CFMI un nuovo personaggio, Franco Tancredi, che in un momento di grave crisi ebbe grandi intuizioni. Roma si appropriò delle sfilate di Alta Moda, ma a Firenze rimasero, e subito si potenziarono le collezioni boutique e maglieria. Tancredi riuscì, inoltre, a stillare un accordo con la Camera Nazionale della Moda, e nello stesso tempo _ il primo ad intuire la necessità di collegamenti del genere era stato Giorgini _ collegò le sfilate fiorentine ai produttori di tessuti e filati. Con ciò intuendo che la moda non può esistere se non come un unico, grande complesso, che rende armonico al suo interno le varie fasi della lavorazione.
C’era, inoltre, un settore con enormi potenzialità, che fino a quel giorno era rimasto in anticamera, un passo se non due dietro alla moda femminile. Era il settore maschile. E dopo il ’68, che comportò fra l’altro una ridefinizione dello stesso modello di essere e di sentirsi uomo, proprio la moda maschile stava conoscendo una stagione di grande interesse.
Tancredi, nel ’72, organizzò la prima edizione di Pitti Uomo. Che era nata come rassegna di abbigliamento e accessori maschili per il mercato nazionale, ma ben presto prese ad assumere un carattere internazionale, e oggi è la più qualificata rassegna del settore che esista al mondo. Alla ricerca di sempre nuovi spazi e mercati, ecco nascere nel 1975 Pitti Bimbo, che presenta l’alta qualità dell’abbigliamento per bambini, e per la prima volta lancia l’idea delle “minisfilate”. Ancora, a dimostrare l’importanza del collegamento fra produttori e creatori di moda, ecco nascere nel 1977 Pitti Filati, che grazie a raffinate ricerche sulle tendenze, diventa subito il punto di riferimento dei produttori di maglieria e degli stilisti che con quei prodotti dovranno creare i loro modelli. Nel 1978, infine, è il turno di Pitti Casa, che nasce come esposizione della biancheria per la casa.
L’Intuizione di Tancredi era stata, dunque, quella di legarsi all’industria che all’epoca era in piena espansione. Di saper trasformare i problemi di concorrenza che venivano da Roma per l’Alta Moda e da Milano per il Pret a porter donna, in un’opportunità per Firenze che, costretta a cambiare alla ricerca di nuovi spazi, lo aveva fatto nella direzione giusta.
Armani, Albini, Missoni, furono i tre stilisti che lui seppe scoprire e valorizzare. Attraverso personaggi di quel livello, Firenze continuava ad insegnare al mondo nel campo della moda.
Con gli anni Ottanta, terminò la lunga e proficua stagione della Sala Bianca di Pitti. Ma, pur senza rimpianti, era difficile dimenticare il nome “Pitti”, e le rassegne lo conservarono anche se furono costrette ad emigrare nei nuovi padiglioni della Fortezza da Basso, che in seguito diventeranno un vero e proprio marchio di fabbrica per le rassegne del Made in Italy.
Erano, tuttavia, anni complessi. Occorreva dare all’azienda una nuova struttura. Nell’83 il CFMI creò la società Centro Moda, al quale fu affidata la gestione delle numerose attività. Cominciò allora un lungo periodo di esperimenti, di confronti con il mercato del tessile e dell’abbigliamento. Finché il Centro Moda decise di chiamare i migliori imprenditori dell’industria della moda italiana a gestire le loro attività.
Fu nell’ambito di questa politica che arrivò a Firenze, nell’87, Marco Rivetti. Il suo successo era collegato alla capacità di saper costruire uno straordinario collegamento fra industria e stilisti. Con lui ebbe così inizio quella che sarà chiamata la politica degli “eventi”. Ovvero, ogni fiera era allo stesso tempo un’occasione di richiamo per il mondo dello spettacolo e dei Media.
Su Firenze si accesero così, infinite volte, i riflettori delle telecamere e delle cineprese. A far da sfondo, gli impareggiabili palazzi e monumenti della nostra città.
Nell’88 la Società Centro Moda diventò Pitti Immagine, e l’anno dopo, con la scomparsa di Franco Tancredi, Vittorio Rimbotti fu chiamato alla presidenza del CFMI.
Negli anni Novanta il numero degli espositori, dei fatturati, dei compratori aumentò costantemente, a dimostrazione che le scelte fatte erano quelle giuste. Ma ancor più era giusto il modello fiorentino di “fare fiera”, ovvero la capacità di unire creatività, qualità, completezza di offerta con le moderne tecniche di produzione e di marketing. Il tutto, tenuto insieme da una grande capacità di comunicare, progettare, addirittura “mettere in scena”, così che le fiere fiorentine sono note nel mondo perchè sono autentici spettacoli dove anche chi non è esperto del settore, trova di chi incuriosirsi o appassionarsi. Sono, per farla breve, eventi culturali.
Nel 1995, quando ormai Pitti Immagine aveva acquisito un’autorevolezza internazionale, a Rivetti successe Mario Boselli, e Firenze diventò in breve tempo la “capitale mondiale dell’industria che fa moda” o più precisamente della “cultura della moda”. Mostre, spettacoli, ricerca, iniziative artistiche. Un po’ alla volta tutti gli stilisti tornarono nella nostra città per partecipare ad eventi eccezionali. A questo punto, anche grazie alla raffinate arti di Rimbotti, uomo di finanza prestato alla moda, Pitti immagine acquistò finalmente un assetto più stabile. Si arrivò ad una sorta di “divisione dei compiti”, con le linee degli stilisti a Milano, l’Alta Moda a Roma, l’industria uomo e gli altri settori tessili a Firenze. Nasceva intanto la Polimoda, una sorta di scuola per la formazione dei futuri operatori nel settore. Nello stesso tempo Pitti Immagine investiva anche sulla Fortezza da Basso, divenuta nel frattempo una straordinaria cittadella delle esposizioni divisa tra mura Rinascimentali, edifici del Settecento e padiglioni dell’ultima generazione.
Nel 2001, Pitti Immagine ha celebrato con una lunga serie di manifestazioni i suoi primi 50 anni, nel ricordo delle sfilate di Giorgini. E’ stato un anno caratterizzato da grandi mostre, eventi, spettacoli che hanno confermato la supremazia della nostra città in questo settore fondamentale per il Made in Italy.
Ormai, per dimostrare la grandezza dell’opera cominciata da Giorgini agli albori degli anni Cinquanta, bastano queste cifre. Nel 2002 Pitti Uomo, articolata in 9 sezioni, 25 padiglioni, ormai alla sua 63° edizione, ha avuto 44.203 compratori, un terzo dei quali stranieri. Dal 1989 al 2000 Pitti Immagine ha investito 25 miliardi di lire per eventi collaterali che hanno richiamato su Firenze l’attenzione dei media di tutto il mondo. Ogni anno, il 6,5 per cento del fatturato viene inoltre investito in avvenimenti culturali. Infine il fatturato dello scorso anno, che ha raggiunto la cifra record di 25mila 612 euro.
Ma parlare di Moda, oggi a Firenze, significa anche portare l’attenzione sul sistema delle strutture espositive e congressuali delle quali Firenze si è dotata negli anni. Oltre alla Fortezza da Basso _ costruita nel 1536 da Giuliano da Sangallo _così chiamata per distinguerla dalla Fortezza dall’alto, ovvero il Forte Belvedere, gli eventi espositivi fiorentini si tengono anche al vicino Palazzo dei Congressi, ricavato dall’antica villa degli Strozzi, e il Palazzo degli affari realizzato nel 1974 dall’architetto Spadolini.
Questi tre “contenitori ” di gran classe, a breve distanza dalla Stazione ferroviaria, ormai da tempo sono gestiti da un’unica Società per azioni, la Firenze Expo e Congress, che ha come principali azionisti la Regione, il Comune, la provincia, la Camera di Commercio di Firenze e quella di Prato, e tutte le principali associazioni di categoria del territorio.
Questa realtà _ ormai da tempo insufficiente rispetto alla richiesta _ ha contribuito non poco a fare della nostra città il punto di riferimento per le iniziative culturali e congressuali da ogni parte del mondo. Dal Tempo libero all’Artigianato _ la mostra dedicata a questo settore risale addirittura al periodo fra le due guerre ed è una delle primissime e più note al mondo _ Firenze Expo ospita ben 32 mostre e fiere ogni anno a cominciare, ovviamente, da quelle dedicate alla Moda.
Per quanto riguarda invece i congressi, che rappresentano un terzo delle attività della Firenze Expo, nonostante una concorrenza agguerritissima che viene anche da altre località della regione, i record si susseguono ai record. Incontri di livello intergovernativo _ per esempio il vertice Nato del 2000 _ si svolgono facilmente all’interno della Fortezza, perchè gli ampi spazi possono essere facilmente controllati, per garantire agli ospiti la massima sicurezza. Inoltre, l’interscambio fra le tre strutture, permette di accogliere anche alcuni dei più importanti congressi al mondo per numero di partecipanti. Per esempio, il Congresso mondiale dell’European Respiratory Society, dell’agosto del 2000, che vide la partecipazione di oltre 16mila delegati.
Ma è nell’immediato futuro, un futuro per molti aspetti già cominciato, che la Firenze delle mostre e delle Fiere, dei congressi e dei grandi eventi culturali, si appresta ad allargare i propri spazi e indirettamente la qualità dei propri servizi. La Firenze Expo rientra, infatti, a pieno titolo, nei grandi lavori urbanistici che in questi mesi stanno ridisegnando il futuro della città.
Uno degli aspetti più qualificanti dei nuovi interventi, è, infatti, l’interramento di viale Strozzi. A quel punto la Fortezza da Basso, il Palazzo dei Congressi e il Palaffari saranno uniti in un’unica struttura di oltre 15 ettari, capace di ospitare al meglio qualunque tipo di organizzazione e di evento. Il tutto a breve distanza dalla stazione ferroviaria e dai principali monumenti della nostra città.
Non è un’impresa da poco, come non pochi sono i disagi che i fiorentini devono subire in questi mesi. Ma alla fine il gioco può valere la candela. Inutile dire, infatti, quali ricadute economiche hanno le manifestazioni fieristiche e congressuali che ormai si propongono senza soluzione di continuità per tutto l’anno. Gli alberghi ovviamente ne traggono vantaggio, i ristoranti e i negozi, ma anche una serie di professionisti del settore _ per esempio gli architetti specializzati nell’organizzazione degli spazi espositivi _ di tecnici, di elettricisti, falegnami, arredatori. Senza contare le innumerevoli società di Pr che organizzano uffici stampa per i singoli eventi, oppure gruppi di hostess, di traduttori, di accompagnatori, di autisti.
Insomma, se Giorgini ebbe una grande intuizione, è anche vero che la città intera nel corso degli anni ha saputo attrezzarsi al meglio per sfruttare le potenzialità indicate allora. Ed aggiornarle alle necessità del presente.
Sempre nelle ristrutturazioni in corso, è prevista la costruzione di un nuovo centro congressi capace di ospitare 2500 persone. Una struttura enorme, se si pensa che l’attuale sala plenaria del Centro Congressi ne accoglie solo mille. Il nuovo complesso nascerà nei pressi delle tre strutture già esistenti, nell’area che è attualmente occupata dalla dogana. La nuova stazione per la Direttissima Roma _ Milano, e la sistemazione viaria prevista nella zona del Romito che consentirà di facilitare il deflusso della Fortezza verso le autostrade, faranno il resto per dare al quartiere fieristico una sistemazione degna del ruolo che Firenze Expo ormai recita nel mondo.
CAPITOLO 8
La Mostra dell’Antiquariato

Taglio del nastro. Da sinistra i Soci: Raffaello Torricelli, Presidente della Azienda del Turismo; Mario e Beppe Bellini, Antiquari e organizzatori della Biennale dell’Antiquariato, nel corso del taglio del nastro alla presenza dell’On. Giulio Andreotti.
Il 10 ottobre del 1961 i Soci del Lions Firenze ebbero una opportunità che poi sarebbe diventata una tradizione. Furono invitati, dall’antiquario Mario Bellini, a visitare la seconda edizione della Mostra Biennale dell’antiquariato, a Palazzo Strozzi. Fu una visita privata, in anteprima. I Lions e le loro signore ebbero modo di ammirare pezzi rarissimi, che erano arrivati fino a noi dalle più prestigiose case antiquarie del mondo. In precedenza, Piero Bargellini, all’epoca Vice Presidente della Biennale, intrattenne,dopo la visita sugli aspetti storici della vicenda antiquaria fiorentina. Tutto questo stava a dimostrare una volta di più il concetto di “cultura” come investimento e nello stesso tempo come occasione di richiamo turistico e di affari. Si trattava di rendere vincente questo tipo di mentalità, fino ad estenderla anche al patrimonio museale. Ci sono voluti ancora dei decenni, ma finalmente, oggi, fuori da ogni provincialismo o dogma ideologico, questo concetto pare diffuso ed accettato.
Da allora per oltre trenta anni la Biennale diventerà, pur nelle varie vicende legate all’utilizzo della storica sede di Palazzo Strozzi, un appuntamento costante e l’occasione per fare il punto su di un settore al confine tra cultura e affari. Negli anni ’90 il Socio Ugo Poggi, in qualità di Presidente di Confcommercio e di Presidente della Biennale darà il suo contributo affinchè la Manifestazione si consolidi nello scenario culturale e mercantile di Firenze.
La prima volta dell’Antiquariato fu nel 1959. L’idea era stata di Luigi Bellini, anzi, della famiglia Bellini. Ovvero una famiglia di antiquari, da sempre, ma ancor prima di autentici uomini di cultura e di appassionati dell’arte. Giuseppe, il nonno, aveva un negozio in via Della Spada dove si incontravano gli studiosi dell’arte nei primi decenni del secolo scorso. Luigi era invece appassionato di arte moderna, e convinse altri antiquari fiorentini a comprare palazzo Ferroni per ospitare, fra l’altro, mostre d’arte. Il tutto avveniva gratuitamente, e fu così che Primo Conti, Martinetti, Arturo Martini, poterono farsi conoscere dal grosso pubblico. Amanti dell’arte, e nello stesso tempo mecenati. Prima veniva l’amore per Firenze, poi quello personale.
Durante l’ultima guerra, il loro palazzo del Lungarno Soderini fu duramente bombardato. Là dentro erano autentiche fortune, gran parte dei capolavori d’arte che la famiglia Bellini aveva accumulato negli anni.
” Dopo la distruzione dei ponti , ha raccontato più volte Mario Bellini, il figlio di Luigi, mi buttai in acqua per attraversare l’Arno e per vedere cosa era successo al mio palazzo e alle mie raccolte. Arrivai dall’altra parte senza scarpe, e con fatica. Ma quello che mi aspettava era molto peggio. Il palazzo era stato centrato, ridotto a uno scheletro, e gran parte del patrimonio che conteneva era distrutto”.
Eppure la preoccupazione dei Bellini fu prima di tutto per Firenze. In un primo momento accettarono che il loro palazzo ospitasse un centinaio di partigiani ancora impegnati nella liberazione di Firenze. Poi si preoccuparono del crollo dello storico ponte di Santa Trinita, e arrivarono al punto offrire 10 mila dollari a chi avesse riportato la testa della Primavera. Non era una cifra da poco. E infatti, dopo una settimana, la testa era stata riconsegnata alla Soprintendenza, così che il ponte Santa Trinita potè rinascere, erano gli anni Cinquanta, “dov’era e com’era” secondo lo slogan di quei giorni
I Bellini, dunque, sapevano fare i loro affari, certamente, ma nello stesso tempo amavano Firenze come pochi. E lo facevano con intuizioni che permisero di anticipare tutte le altre città del mondo.
L’idea di far nascere a Firenze una mostra biennale dell’Antiquariato. “Mostra mercato” fu chiamata all’inizio, significava infatti utilizzare l’incomparabile nome di Firenze come punto di raccolta dei migliori e più preziosi oggetti antiquari dispersi nel mondo. Mai nessuno aveva avuto un’idea del genere, e quando i Bellini fecero sapere che avrebbero invitato a partecipare alla mostra i colleghi di tutta Europa e quelli degli Stati Uniti con i pezzi migliori, ci furono proteste fra gli antiquari italiani. Addirittura, la Federazione italiana degli antiquari mandò ai Bellini una lettera di diffida. I motivi ? Non si voleva accettare il confronto con i migliori antiquari del mondo. Ma così non la pensarono i Bellini. Il vecchio Luigi prese contatti con i suoi amici inglesi, americani, francesi. E alla fine, alla mostra antiquaria di Palazzo Strozzi c’erano 75 espositori stranieri. Il Gotha del settore. Nessuno ebbe più il coraggio di replicare. I pezzi arrivati erano così rari che furono acquistati in buon numero dai musei. Per certi aspetti, anche attraverso l’antiquariato dell’arte, si stavano ricucendo le ferite e le divisioni della guerra.
Cos’era agli inizi la mostra mercato dell’antiquariato? A cosa tendeva? E perchè doveva svolgersi proprio a Firenze ?
Dicono gli storici, in specie i medievalisti, che i fiorentini ebbero una capacità di trattare affari nel settore antiquario fin dal 13° secolo. In quegli anni di grande espansione economica e industriale, quando la produzione delle lane fece di Firenze la città forse più ricca al mondo, i capitali così ottenuti furono investiti in finanza. I fiorentini, in pratica, divennero banchieri, e come tali presero a sovvenzionare _ usanza che mantennero per secoli _ i potenti stranieri. Addirittura, è cosa nota, toccò a una famiglia fiorentina battere moneta per i re d’Inghilterra. Ebbene, potendo avere in mano, tramite il denaro, le sorti delle potenze d’Europa, potendone condizionare le spese, i fiorentini diventarono anche gli arbitri delle numerose guerre che si svolgevano in Europa. Ma non contenti di trarre beneficio dai prestiti, si attrezzarono per far tornare nella loro città il denaro che i potenti distribuivano come paga alle truppe mercenarie.
Era un sistema cinico ed efficientissimo. Firenze prestava i soldi per fare le guerre, quel denaro finiva in mano ai mercenari, i fiorentini che avevano organizzato gruppi di meretrici al seguito delle truppe lo intascavano a “stretto giro”. Non solo, al seguito degli eserciti mercenari c’erano anche numerosi rigattieri fiorentini, che acquistavano a prezzi stracciati il bottino di guerra. Ecco, per quanto possa far piacere o meno agli antiquari di oggi, quelli di ieri e forse di ieri l’altro erano nati così.
Per questo ed altri più nobili motivi, Firenze fu da sempre un luogo dove le opere d’arte, e in seguito gli oggetti d’arte, trovarono il giusto apprezzamento. Spesso la nostra città era una tappa intermedia, dove gli oggetti venivano classificati, restaurati, per poi partire per le case di ricchi estimatori degli oggetti d’arte in tutto il mondo. Questa secolare tradizione, per un verso rese sempre più raffinati i “rigattieri” fiorentini, ma per l’altro servì alla nascita di una “cultura dell’antiquariato”. Un modo di apprezzare e di “lavorare” gli oggetti antichi, che un po’ alla volta raggiunse anche le più piccole botteghe artigiane.
Fu così che in San Frediano e in Santa Croce, il popolo minuto si attrezzò e imparò mestieri di rara difficoltà e raffinatezza. Nelle minuscole botteghe aperte sulla strada erano doratori, falegnami capaci di restituire ” a nuova vita” legni che apparivano fradici e tarlati. Insomma, nacque una cultura del restauro che ancor oggi sopravvive ai massimi livelli.
Firenze, dunque, anche al di là delle sue conclamate opere d’arte, era giustamente capitale dell’antiquariato perchè l’attenzione, l’amore, la capacità di trattare oggetti d’arte, coinvolgeva non soltanto l’elite cittadina ma anche i popolani. Era una conoscenza diffusa proprio nei quartieri più poveri, dove, non a caso, abitavano alcuni fra i più prestigiosi antiquari al mondo.
Con la prima mostra antiquaria, furono esposti _ abbiamo detto _ oggetti di raro valore e di altrettanta incommensurabile bellezza. Ma, nello stesso tempo, si diffuse una cultura di rispetto dell’oggetto antico che forse , fino a quel giorno, non aveva coinvolto a sufficienza la classi medie. Quelle classi, che proprio negli anni del “boom economico ” stavano crescendo, e cominciavano ad avere una discreta possibilità economica.
Forse fu casuale, ma di certo la Mostra arrivò proprio al momento giusto, quando la nostra civiltà contadina aveva cominciato a disgregarsi sotto i colpi dell’industrializzazione. Ville di proprietari terrieri con mobili di rara bellezza. Per certi aspetti le stesse case dei contadini con i loro arredi di massello, tutto rischiava di finire ” al macero” perchè considerato inutile nel nuovo tipo di vita. Occorreva che ci si rendesse conto del valore di questi oggetti, che nascesse un mercato capace di apprezzarli e quindi di evitarne la distruzione.
Alla fine degli anni Cinquanta, quando un mobile di formica era ben più apprezzato di una fratina di noce, un pavimento di ceramica ben più del cotto toscano, non era facile diffondere questa cultura. Ma, sia pure indirettamente la Biennale dell’Antiquariato _ che si occupava di ben altri e più preziosi oggetti _ contribuì a che ciò avvenisse. E non fu poca cosa.
Negli anni Sessanta, infatti, si scatenò una vera e propria caccia ai vecchi legni, armadi o porte che fossero, perfino ai tini, alle botti. E se molto andò ugualmente perduto, è anche vero che senza questa sensibilità verso l’antico, che partendo dai più nobili oggetti man mano si ampliò fino alle cose della più modesta vita quotidiana, di certo i segni di una secolare civiltà sarebbero andati perduti nell’arco di decenni.
Le manifestazioni biennali furono ospitate fino alla 18° edizione del 1993 in Palazzo Strozzi., Il numero degli spettatori paganti dimostrava da solo quanto gradito fosse l’evento. Il record, con 122 mila visitatori, fu raggiunto nel 1973, ma tutte le edizioni superarono ampiamente i 100 mila visitatori.
Il perchè del successo? La mostra antiquaria di Firenze fu la prima al mondo. Anche quando eventi del genere presero a moltiplicarsi ovunque, anche nei più sperduti paesi della campagna , l’importanza della città e quella dell’edificio _ nessun altro poteva avere un Palazzo Strozzi a disposizione _ fece sì che la manifestazione fiorentina non ebbe mai dei veri concorrenti. Inoltre, la mostra fiorentina era spesso accompagnato da eventi collaterali, mondani e culturali, che alcune volte duravano per un mese intero.
Col passare degli anni, e il moltiplicarsi di analoghe iniziative, fu però necessari abbreviare i tempi di esposizione, e il risultato fu che in un breve tempo si accalcava sulla mostra un numero enorme di persone, così che i risultati non erano più quelli di una volta. Al godimento estetico delle prime edizioni si era sostituita una sorta di “corsa” fra gli stand, che lasciava insoddisfatti i più raffinati fra i visitatori.
Nel 1995, venendo a mancare la disponibilità di Palazzo Strozzi _ e la vicenda scatenò durissime e comprensibili polemiche _ la manifestazione fu allestita in tutta fretta nel Palazzo degli Affari, con effetti catastrofici sull’immagine e comprensibili proteste da parte degli espositori.
Le due successive esposizioni, quella del 1997 e del 1999, si svolsero nel Palazzo Corsini sull’Arno. Ma anche l’utilizzo di un antico palazzo barocco di grande suggestione, non permise di rinnovare i successi di un tempo.
Altre mostre, intanto, a cominciare da quella Maastricht, riuscivano nell’intento di cavalcare i successi di quella fiorentina. Ampi stands, selezione dei partecipanti e degli oggetti esposti, ma sopratutto una minore resistenza dei vincoli burocratici che dalle nostre parti ingessano il mercato, ha fatto sì che i clienti migliori vi si rivolgessero, tralasciando in parte il mercato italiano.
La prossima biennale è prevista dal 26 settembre al 5 ottobre prossimo e la scommessa è di riportarla ai fasti dell’inizio. Ovvero di farne la più bella del mondo, punto e basta. Si svolgerà di nuovo a Palazzo Corsini, ma con una ferrea selezione dei partecipanti. L’allestimento è stato affidato a Pier Luigi Pizzi, scenografo di rilevanza internazionale. Una qualificata commissione scientifica seleziona le opere da esporre. Una campagna promozionale è in corso in questi mesi nelle capitali europee e negli Stati Uniti. Per la serata inaugurale è prevista la donazione di un’opera d’arte restaurata al Museo del Bargello.
E’ opinione comune che con la prossima Biennale, Firenze ritorni ai primissimi posti nel mercato internazionale dell’antiquariato. Ancor oggi, infatti, sono migliaia le persone che, nella nostra città, vivono dell’indotto antiquario. Sono rigatttieri di vario spessore, ma anche fotografi, editori d’arte, spedizionieri, restauratori, artigiani che operano nel settore dei mobili, dei materiali lapidei, delle stoffe e degli arazzi, delle ceramiche e dei vetri, dei bronzi e dei metalli. Insomma, Firenze vive ancora la sua cultura antiquaria, riesce a trasformarla in lavoro ed affari, in prestigio, e lo fa a tutti i livello sociali.
CAPITOLO 9
La Città Anziana
La vicenda sociale di Firenze. Già nell’ottobre del 1961, con una relazione di Edoardo Detti, che aveva appena ultimato il nuovo piano regolatore, il Lions aveva affrontato il tema dello sviluppo urbanistico in relazione alle caratteristiche di età, di reddito, di prospettiva della popolazione fiorentina.
L’anno dopo, alcune conversazioni furono dedicate alla “ crisi dei giovani” e nel 1964,con la presidenza di Mario Leone, due serate successive ebbero come tema i problemi del traffico in città. Ancora nel 1968, presidente Umberto Benedetto, in due serate che ebbero come protagonisti il socio Luciano Bausi, sindaco di Firenze e il giornalista scrittore Pier Francesco Listri, si discusse sul futuro della città dal punto di vista economico e sociale. Fu però nel 1975,con la presidenza di Artemio Franchi, che i rappresentanti delle categorie cittadine furono chiamati a raccolta su un tema che mai come oggi può sembrare attuale. “E’ vero che Firenze muore”?
L’invecchiamento della città, e la crisi delle vecchie botteghe artigiane, il traffico e la difficoltà di un ulteriore sviluppo urbanistico, tutto venne preso in considerazione. Parteciparono, a quelli che risultarono autentici convegni sullo stato di salute della città L’On. Cesare Mattini, patron della Mostra dell’Artigianato, i Soci Giancarlo Cassi, Presidente della Camera di Commercio, Luciano Bausi, prima Sindaco di Firenze e poi Senatore, il presidente del Centro Moda Franco Tancredi, il presidente dell’azienda di turismo Raffaello Torricelli, Valentino Giannotti per la Confcommercio, Sergio Giachetti presidente del consiglio di amministrazione della Fiorentina.
In pratica, tutta la città, era al capezzale di una crisi che allora, si sperava fosse contingente e superabile.
Firenze perde i pezzi, e spesso sono quelli migliori. Lo dimostra il progressivo invecchiamento della popolazione. Che ha già superato il livello di allarme, e che ci rende la città meno prolifica d’Italia, quando l’Italia è all’ultimo posto nelle classifiche mondiali.
Che sta succedendo, cosa significa questa rinuncia alla procreazione, quali conseguenze comporta per l’immediato futuro?
Forse, per capirlo, può bastare un accenno a quanto avvenne nei secoli scorsi. La città romana fu tra le più importanti dell’impero. Aveva il suo teatro, le sue terme, le sue mura.
Si è calcolato che nel periodo di maggior espansione superasse i 30mila abitanti. Una città medio – grande per quel periodo, non c’è dubbio. Basta però fare un salto in avanti, più o meno fino al X° secolo, e ritroviamo una città _ villaggio che non arrivava a 5 mila abitanti. Le paludi che erano rimaste a testimoniare l’antico lago, quello che disegnò la nostra pianura, avevano riconquistato il territorio. Fra i mille problemi di quegli anni, i fiorentini avevano anche quello della malaria.
Cominciò con l’anno Mille la ripresa. E troviamo alla fine del duecento una popolazione di quasi 90 mila abitanti. Tantissimi, al punto che la città fu ridisegnata da Arnolfo, nella certezza che l’espansione sarebbe continuata senza sosta. Non fu così, lo sappiamo. La peste di metà del Trecento, quella di cui ci parla Boccaccio nel Decamerone, quasi dimezzò gli abitanti. Che per tornare ad essere 90 mila dovettero aspettare i giorni dell’Unità d’Italia, anzi, quelli di Firenze capitale. Da allora fu tutto un progredire, costante. Come le altre volte il crescere della popolazione era collegato alla situazione economica o almeno alla speranza di un miglioramento economico.
Si arrivò, circa 15 anni fa, ad un massimo di quasi 400 mila abitanti. Ma con gli anni Novanta la popolazione riprese a scendere. I primi tempi la spiegazione della quale tutti si accontentavano era questa. Diminuiscono i fiorentini, ma solo perchè le giovani coppie vanno ad abitare nei comuni della cintura. Vanno cioè a Scandicci a Campi, a Sesto, là dove c’è spazio per costruire e le abitazioni costano di meno.
A dire il vero, anche questa spiegazione lasciava molti problemi insoluti. Per esempio, le case lasciate vuote a Firenze, che fine facevano? Era destinate al degrado o piuttosto diventavano monolocali per turisti da affittare una settimana per volta? Comunque sia , fino a metà degli anni Novanta nessuno aveva capito _ o aveva voluto capire _ che il problema della popolazione a Firenze era ben più profondo di quanto appariva. Era, se non si parlasse di esseri umani, un problema “strutturale”.
Ci siamo poi illusi, con la seconda metà degli anni Novanta, che il calo della natalità e quindi della popolazione, potesse essere compensato dall’arrivo degli extracomunitari. Che sono arrivati, non c’è dubbio, e sono quasi sempre necessari per fornirci servizi, in particolare verso gli anziani, che altrimenti nessuno saprebbe svolgere. Ma che da soli non compensano la diminuzione di natalità.
Quali sono, infatti, le cifre con le quali dobbiamo fare i conti? E quali problemi si pongono, anche sotto il profilo economico, per un’amministrazione come la nostra?
Nel gennaio scorso, sono stati finalmente resi noti i dati del censimento del 2001. Si è scoperto, così, che i residenti erano diventati 352mila, rispetto ai 381mila del 1991. Il calo netto era stato di 29mila abitanti ma con una brusca accelerazione nell’ultimo periodo. I nati erano stati 24mila, i morti 45mila. Nello stesso tempo erano emigrate 84mila giovani famiglie ed erano arrivati 76mila immigrati. Ogni donna in età di procreare aveva fatto in media un figlio. E lo aveva partorito in media a 32 anni, ovvero molto tardi.
Ma non basta. I fiorentini che hanno superato i 65 anni sono 92 mila. Quelli che hanno superato i 75 sono 47 mila, quelli che hanno superato l’invidiabile soglia degli 85 sono 13 mila.
Ebbene, rispetto a queste cifre, hanno ancora un senso le analisi ottimiste che ci avevano accompagnato per tutti gli anni Novanta? I demografi dicono di No. La situazione fiorentina è difficile, molto difficile, se non addirittura drammatica. Ed ecco perchè.
Gli emigranti, ma a questo punto non finiscono tutti a Sesto, molti vanno verso altre città, per esempio quelle emiliane, dove la situazione economica è più viva e dinamica, non vengono compensati dall’immigrazione, ( 84mila contro 76mila). Se anche lo fossero, avremmo comunque problemi di due tipi. Il primo è collegato agli aspetti sociali. Un fiorentino che parte non ha certo bisogno del sostegno di accoglienza che può avere un immigrato da paesi extracomunitari. Il secondo è strettamente economico, perchè il reddito fiscale dei primi non è paragonabile a quello dei secondi.
Ammesso comunque che le due realtà si possano analizzare solo in base ai numeri, rimarrebbe una forte differenza in negativo. La popolazione, cioè, continuerebbe a scendere in modo preoccupante. Il motivo? Per mantenere costante la popolazione, occorre che ogni donna in età fertile partorisca oltre due figli. Per la precisione, 2,1. In Italia siamo a una media di 1,4. A Firenze la media è inferiore, si è fermata da anni all’ 1,1.
Anche per questo argomento i soliti bene informati hanno in tasca le loro risposte. Per esempio, il problema della scarsa natalità è legato alla situazione economica negativa. Niente è più assurdo. Al contrario, sono proprio le famiglie che vivono in zone con maggiori difficoltà economiche a produrre più figli. E in ogni caso, le cifre parlano da sole. Guarda caso, infatti, Firenze che per la natalità è al 99° posto su 103 province italiane, balza invece ai primissimi posti per quanto riguarda il reddito pro capite. Che, stando alle classifiche del Sole 24 Ore, equivale a 18mila euro a testa contro i 14 mila della media nazionale, e i 9 mila di numerose città del Sud dove i figli vengono prodotti a un ritmo anche doppio del nostro. Quindi, se siamo ricchi, o almeno più ricchi degli altri, ma continuiamo a fare meno figli, dove sta il problema? Non sarà mica che il nostro è un dato esistenziale, culturale ? Una sorta di egoismo che trova giustificazione solo nel fatto che a Firenze non si vive più come una volta, ed è difficile immaginare il futuro con ottimismo?
Qualunque sia la spiegazione, è chiaro che occorrerebbe correre ai ripari. Sono finiti, infatti gli anni ’70, quando la popolazione mondiale cresceva a ritmi vertiginosi, preoccupanti, e ci si chiedeva come fare a contenerla. Sono lontane, appartengono quasi alla “preistoria” i dati e le analisi del Club di Roma che prevedeva una imminente catastrofe demografica. Ormai gli studiosi più sensibili, e preparati nel settore, ci dicono che la corsa verso l’aumento della popolazione mondiale si sta arrestando. Che si fermerà entro i prossimi decenni e che dopo di allora dovremo preoccuparci del contrario. Ovvero, come gestire una diminuzione costante e massiccia del numero degli abitanti della Terra.
Già, perchè l’aumento della popolazione crea problemi non da poco, ma quanto meno aguzza l’ingegno per come produrre cibo ed energia. Ma la diminuzione non si è mai verificata nella storia. E gestirla, con un aumento dell’età degli abitanti, non sarà cosa facile. Eppure sarà quello il problema della fine del nostro secolo. Già oggi il periodo medio nel quale un anziano non è autosufficiente, e quindi ha bisogno di cure ed attenzioni 24 ore su 24 è arrivato a quasi un anno. Solo 20 anni fa, era di un mese o poco più. A questo ci porta il fatto di aver prolungato la vita, ma non in proporzione la qualità della vita. In realtà stiamo battendo dei record, non c’è dubbio, ma gli anni nei quali la vita può essere davvero definita tale, e viene affrontata in piena salute e coscienza, sono molti di meno di quanti si vuol far credere.
L’umanità si trova davanti a problemi enormi. E Firenze è costretta suo malgrado ad anticiparli. A livello amministrativo, si cercano di risolvere le situazioni man mano che si presentano. Ma non è cosa facile far tornare i conti. E difatti, come si può gestire una popolazione come la nostra?
Proviamo a immaginare le nostre cifre riportate su un grafico. Ci troviamo di fronte a una piramide con il vertice verso il basso. Poche migliaia di ragazzini ( a Firenze ne nascono 35 ogni mille donne in età fertile) ai quali è affidato il compito di curare, sostenere, insomma reggere sulle proprie spalle, decine di migliaia di nonni e di bisnonni. Già, perchè le donne in età fertile, per un terzo vivono ancora nella famiglia di origine, per un altro terzo vivono da single, e le altre sono sposate o comunque vivono con un partner. Tutto questo fa sì che si prolunghi oltre ogni credibilità il periodo dello “svezzamento”, e quando sembra di esser pronti ad affrontare la vita in prima persona, ci si scopre talmente poco disposti al sacrificio, che dei figli è meglio non far niente.
Questa è la situazione a Firenze, e questo è il trend per i prossimi anni. Ne pare ascoltato l’appello del Cardinale Antonelli quando dice: “Fiorentini fate più figli”. E non lo è , ovviamente, perchè le stesse cose la Chiesa le diceva quando di figli ce n’erano davvero troppi, il pericolo della esplosione demografica era reale, e non tutti potevano avere fede nella Provvidenza come, ovviamente, avevano i sacerdoti.
C’è un altro dato che è in sè preoccupante. Il 42 per cento dei fiorentini vive da solo, o per lo meno forma un nucleo familiare composto da un solo componente. Sono il risultato di scelte volute come nel caso dei single, o in qualche modo legate alle circostanze come nel caso dei divorziati, o infine subite come nel caso dei vedovi e delle vedove. Ma qualunque sia la causa, resta il problema di come garantire sostegno ed assistenza a queste persone. Le quali, anche se giovani, possono trovarsi nella necessità di pur brevi periodi di assistenza. E’ il motivo per cui le spese per l’assistenza sociale, in particolare verso gli anziani, a Firenze hanno raggiunto livelli difficilmente sopportabili. Nello stesso tempo i servizi offerti sono davvero modesti, e sicuramente inferiori a quelli che altre città, dove la situazione sociale è diversa e l’economia è in espansione, riescono a fornire.
E’ dunque un momento difficile per Firenze e per i fiorentini? Non c’è ombra di dubbio. Ma sarebbe sbagliato dedurne che la città non ha ormai altro destino che quello di diventare la città museo, al servizio di milioni di turisti, senza più una sua personalità e una sua identità.
Non è così, per fortuna, e lo dimostrano le innumerevoli iniziative di solidarietà che proprio a Firenze sono nate e stanno nascendo.
I problemi, infatti, diventano talvolta opportunità. E possono anche dimostrare quanto grande sia la sensibilità e la generosità di un popolo. Per certi aspetti, l’alluvione del ’66 lo dimostrò all’Italia e al mondo.
Quali sono, dunque, le iniziative che ancor oggi qualificano Firenze?
La prima, è fuori discussione, è la nostra Misericordia. Che nacque, come è noto, nella prima metà del secolo XIII, quando le compagnie della fede _in due parole gruppi di guelfi che avevano combattuto con le armi contro l’eresia patara, molto diffusa fra i ghibellini _ si accorsero che era uno strano modo quello di onorare Cristo con le armi, e sconfitto il nemico si trasformarono così in gruppi di preghiera, o di sostegno ai malati, o addirittura si preoccuparono, fu appunto il caso della Misericordia, di seppellire i morti, quelli che rischiavano di non avere nessuno disposto a farlo.
Fu proprio questa caratteristica che, con il moltiplicarsi delle epidemie, dal colera alla peste, permisero alla Misericordia di moltiplicare i propri averi. E infatti, durante le epidemie, molti dichiaravano la Misericordia come unico erede, pur di avere la sicurezza di essere assistito in punto di morte e dopo. Questo permise alla nostra Confraternita di accumulare non pochi beni, che nel corso dei secoli si sono, almeno in parte, conservati. Ebbene, la Misericordia fiorentina, della quale hanno fatto parte Granduchi, arcivescovi, e perfino re d’Italia, fu tra le prime organizzazioni al mondo e l’unica che ha continuato ininterrottamente ad oggi, che si dedicò alla assistenza gratuita dei sofferenti. E fu da Firenze che prima in Toscana, poi in Italia e infine nel mondo, si moltiplicarono simili iniziative.
Associazioni per certi aspetti analoghe, come la Croce Rossa, hanno avuto come primo esempio la Misericordia fiorentina. Per non parlare dei tanti gruppi Fratres, o le varie Croci che ormai si trovano un po’ ovunque. Ma il problema non è nella primogenitura o meno di una ruolo sociale. E’, piuttosto, nel fatto che a Firenze e non altrove i privati sentono la necessità di mettere a disposizione del pubblico, il proprio tempo e le proprie capacità. Una forma di volontariato ante litteram, che coinvolge tutte le classi sociali. Va letta in questa chiave l’importanza di esperienze come la Madonnina del Grappa, che certamente fu voluta e potè vivere negli anni grazie alla santità di don Facibeni, ma nello stesso tempo potè risolvere i suoi problemi economici perchè la città tutta si strinse intorno all’Opera sentendola cosa propria, benché fosse una iniziativa privata.
La Misericordia, dunque, è il primo e il più lontano esempio di come a Firenze si concepisce la pubblica necessità. Misericordia che molto spesso si è considerata sinonimo di ambulanza, capace di arrivare in tempi brevi dove se ne presenti al necessità. Ma la Confraternita è ben altro. Fra i suoi servizi, è di rilievo l’assistenza domiciliare ai malati, le cosiddette “mutature”. Ogni giorno, per tre volte al giorno, i “non autosufficienti” vengono avvicinati a casa loro dai confratelli che li cambiano, li puliscono, li sollevano dal letto alla poltrona o viceversa, quando lo stato di salute dell’infermo lo consente.
Sull’esempio dei confratelli con la cappa nera, sono però nate nella nostra città numerose altre associazioni che danno risposta, o cercano di darla ad una lunga serie di problemi emergenti. Ci sono associazioni che assistono nelle loro case, sotto il profilo medico e psicologico, i malati terminali. Svolgono un lavoro che non ha prezzo, e i cui vantaggi ricadono sopratutto sulle famiglie dei malati, anche sotto il profilo economico. Ci sono gruppi di volontari che assistono i malati negli ospedali. Ci sono gruppi che frequentano le carceri. E ci sono gruppi che ogni giorno passano a portare cibo e altre forme di sostegno ai senza casa, ai barboni, agli immigrati che sono arrivati a Firenze senza un lavoro, senza di che nutrirsi, solo sperando nella capacità di accoglienza della nostra città.
Nascono infatti a Firenze, e ormai si sono diffuse in tutta Italia, le Ronde della Carità. A fondarle fu Paolo Coccheri, un personaggio che anima il mondo della solidarietà fiorentina, impegnandosi a tempo pieno per i più deboli e gli emarginati. Un laico, un “aspirante cristiano” come ama definirsi, che ha raccolto intorno a sè decine di persone. Sono loro che la mattina poco dopo l’alba, la sera verso le 21, distribuiscono pasti caldi alla Stazione e altrove. Ecco la Firenze che non vuol morire, la Firenze che non tutti conoscono, e che invece merita di farsi conoscere da tutti perchè a tutti offre dignità ed orgoglio nell’appartenenza.
A chi lo conosce, ai suoi numerosi amici, Paolo Coccheri racconta come e perchè cominciò il suo impegno verso gli altri. Fu nell’incontro con Fioretta Mazzei, e nel partecipare alla messa dei poveri, quella che da 70 anni _ fondata da don Bensi e da La Pira,_ si svolge nella chiesa fiorentina della Badia. E’ un momento incredibile, che ancor oggi continua, pur nel disinteresse generale. I senza casa, gli immigrati, ogni volta due o trecento persone, si raccolgono la domenica mattina nella chiesa di via del Proconsolo, e qui, dopo la messa celebrata alle 9, ricevono un piccolo sostegno in denaro, un po’ di cibo, eventualmente anche del vestiario, ma sopratutto trovano persone capaci di ascoltarli e, finché è possibile, capaci di trovare una soluzione ai loro problemi.
Quali sono le tendenze per i prossimi anni? Nel 2011, su una popolazione residente stimata in 326 mila persone, circa 97 mila avranno più di 65 anni, e il 16 per cento ne avrà più di 75., Quindi, la popolazione diminuirà ancora considerevolmente, e nello stesso tempo invecchierà. In pratica continuerà il trend attuale che ha visto crescere dell’11 per cento in 6 anni il numero degli ultra sessantacinquenni.
Ebbene, questa tendenza va letta anche sotto profili che solitamente si tendono a trascurare. Per farlo occorre usare una “lente di ingrandimento” che ci permette di scoprire come alcuni quartieri sono molto più a rischio di altri. Per esempio, il quartiere di Campo di Marte, è quello dove la popolazione ha l’età media più alta, subito dopo viene il quartiere Galluzzo _ Gavinana, mentre quello dell’Isolotto e di Legnaia, l’unico dove si sono costruite anche recentemente nuove abitazioni, è il più “giovane” della città.
D’altra parte, il quartiere dove c’è la più alta densità di anziani è il Centro storico, con 1485 per chilometro quadrato. Sono dati che possono servire per una “strategia” complessiva dell’assistenza. Alcune zone, infatti, hanno più bisogno di altre. Alcune zone, con il moltiplicarsi di extracomunitari chiamati a dare assistenza agli anziani, stanno modificando il loro tessuto, sociale più rapidamente degli altri.
Ancora, con la “lente di ingrandimento” si coglie un altro particolare. E’ raddoppiata la percentuale di anziani che vivono da soli in casa propria. In apparenza il dato è negativo, ma in realtà è anche il risultato di una politica, più che doverosa, condotta dal Comune. Si tratta, infatti, di far rimanere nel proprio ambiente, almeno finché possibile, l’anziano che può ancora cavarsela da solo o con un piccolo aiuto da parte del comune o dei volontari.
Ecco, questa è la Firenze di oggi e di domani. A meno che l’intuizione di alcuni, la capacità amministrativa di altri, non siano capaci di invertire un trend assolutamente negativo. La città, che è al centro di un comprensorio di quasi un milione e mezzo di abitanti, ai quali fornisce servizi, cultura, occasioni per il tempo libero, ha pur sempre una potenzialità enorme. L’importante è che ritrovi fiducia e torni a credere nel proprio futuro.
CAPITOLO 10
La Città degli immigrati

L’inaugurazione del Corso di alfabetizzazione della Comunità cinese di Firenze
Non poteva restare estraneo, il Lions Club Firenze, a quanto stava avvenendo nell’estrema periferia della città, nei quartieri di Peretola e di San Donnino. Così, il 26 ottobre del 1999, presidente l’architetto Roberto Lallo. Tenne una conversazione al Lions: Don Giovanni Momigli, il parroco di San Donnino, il sacerdote che, su richiesta del cardinale Piovanelli, aveva tentato di trovare una via di uscita al dramma che si stava consumando nei luoghi dell’ immigrazione cinese. La serata, che fu un vero e proprio Summit tra le varie componenti della Comunità e i Soci del Club, servì per gettare le basi di un vasto intervento che quell’anno il Lions Club Firenze fece. Interpretando gli scopi del Lionismo fu finanziato un corso di alfabetizzazione della Comunità cinese, nel tentativo di toglierla dall’isolamento della Cina Town e poter integrare velocemente la prima generazione di immigrati. I Soci On. Sergio Pezzati, l’editore Enrico Paoletti e Vincenzo Recchi, allora Comandante dei Vigili Urbani coadiuvarono il Presidente Roberto Lallo nell’iniziativa e il corso fu inaugurato a San Donnino, nel cuore della Comunità, alla presenza del Prefetto. Alla fine dell’anno sociale, in una toccante cerimonia, furono consegnati gli attestati di frequenza al corso e donato, ad ognuno dei partecipanti un vocabolario Cinese-Italiano.
Questa fu la risposta simbolica del Lions Club Firenze alle tensioni, anche sociali che in certi quartieri, e poi nei vicini comuni di Campi e nell’area Pratese, la presenza di lavoratori cinesi aveva creato e che sembravano insuperabili.
Firenze, per la prima volta in età moderna, faceva i conti con la sua vocazione alla accoglienza e alla multietnicità. E si accorgeva che la realtà era molto più complessa delle dichiarazioni di principio. Ama dire Mario Luzi, per molti la coscienza critica della nostra città, che la bellezza di Firenze è nel suo provincialismo non disgiunto dalla capacità di essere nel mondo. Lontana dai poteri dell’economia e della politica, provinciale per questo, può permettersi di ritrovare unità ed armonia, capacità di accoglienza, vocazione internazionale, proprio attraverso la sua sensibilità e la sua cultura.
Non sappiamo se questa analisi vale ancora nel presente. Di certo vogliamo augurarci che possa valere nel futuro, non roseo, che ci aspetta.
Tutto era cominciato con una festa al Parterre per il capodanno cinese. Era il 29 gennaio del 1987 ed i cronisti si affannavano nel mettere in risalto il clima amichevole, lo scambio “di cultura e di sorrisi” che si rivelò nell’occasione fra i cinesi di Firenze, quasi tutti arrivati dalla provincia del Nord est di Zhejiang, e i fiorentini purosangue.
C’erano, per la festa al Parterre, lanterne di carta ed aquiloni, esibizioni di arti marziali, diapositive su Pechino, gare di bonsai. Né potevano mancare gli “involtini primavera”, i brindisi, i mortaretti e gli scoppi d’artificio. I cronisti di quei giorni, forse con imprudenza, si lanciavano in commenti di questo tipo: “Ma potrebbe Firenze dirsi una città internazionale se non avesse la sua piccola China Town? Adesso ce l’abbiamo. E’ una comunità di 2500 persone e ci auguriamo che possa crescere nei prossimi anni.> E per concludere gli articoli, in quel giorno, ecco la breve storia della presenza dei cinesi a Firenze. <I primi arrivarono qui negli anni Trenta. Vendevano le cravatte a una lira l’una. Poi riapparvero negli anni Cinquanta, subito dopo la guerra. Negli anni Ottanta sono stati chiamati qui da alcune aziende che li impiegarono come manodopera a basso costo. Ma adesso, finalmente, hanno qualche ristorante e qualche negozio di pelletteria.>
Passarono tre mesi, non di più, e già qualcuno cominciò a vedere le cose diversamente. Sopratutto gli abitanti di San Donnino e di Campi, nelle cui zone i cinesi avevano scelto di abitare. Sì, certo, i cinesi sorridevano sempre e più che mai, insegnavano a noi tutti l’attaccamento al lavoro, avevano luci e decorazioni che facevano tanto “colore” per le strade. Però, la CNA e in genere gli artigiani del settore pelle, li accusavano senza mezzi termini di non rispettare ” nè gli orari nè i contratti”, in pratica li accusavano di concorrenza sleale. Il problema era nel fatto che i cinesi stavano in dieci o quindici dentro un monolocale e qui vivevano, lavoravano, e facevano un enorme baccano giorno e notte.
Ancora qualche mese, e già col settembre dello stesso anno, si cominciò a parlare di “invasione”. I 250 “regolari” del gennaio erano diventati 1700, altri 900 erano in attesa di regolarizzazione, i ristoranti erano passati da 23 a 84, le pelletterie da 27 a 111. Una crescita eccessiva in solo nove mesi. Tanto che qualcuno, il presidente della Confcommercio Valentino Giannotti, cominciò a pensare di porre un fermo “prima che sia tardi.”
A Brozzi, a Campi, a San Donnino, cominciarono le proteste. La gente si lagnava non più solamente per il rumore ma anche per gli odori. Fritture, lessi, bolliture, diffondevano nei comuni limitrofi a Firenze degli effluvi strani e comunque non graditi. Qualcosa si era incrinato, anzi, si era rotto per sempre nei rapporti fra immigrati e fiorentini. Alla curiosità era seguito il desiderio di arginare “un’avanzata ” che assomigliava sempre più a un’invasione.
Fu di fronte a questi problemi che i cronisti locali si mobilitarono, e nell’arco di poco tempo scoprirono cose non esaltanti a proposito della comunità cinese. Fu ripresa ad esempio, e rilanciata sulla stampa fiorentina, un’inchiesta del Nouvel Observateur dove si sosteneva che nelle comunità cinesi nel resto d’Europa era diffusa l’abitudine di “non far morire mai nessuno”. Ciò avveniva per il semplice fatto che i documenti del caro estinto subito passavano ad un parente irregolare. Si cominciò a chiedersi se i ristoranti, spesso semivuoti, non fossero in realtà “coperture” per altri traffici. Insomma la polemica era già intensa alla fine dell’87, e non era passato un anno da quando si guardava con simpatia ai sorrisi e alle lanterne colorate dei cinesi a Firenze.
L’anno dopo fu chiaro che dietro l’arrivo di tanti asiatici tutti insieme, c’era una organizzazione ed un progetto. C’era probabilmente anche la “mafia gialla”, che per un verso facilitava l’arrivo di tante persone da una provincia poverissima, e dall’altro le sfruttava una volta arrivate, chiedendo indietro a costi esosi il prezzo del viaggio o addirittura imponendo il racket.
A confermarlo fu un omicidio avvenuto ad Albenga, dove due cinesi furono uccisi a colpi di Kung – Fu. L’episodio era in qualche modo legato alla comunità fiorentina, e sopratutto aveva come sicuro movente una richiesta di “pizzo”.
Erano tutti così i cinesi fiorentini? No, evidentemente. Ma il problema esisteva, la mafia era presente fra di loro. Fu così che la polizia cominciò a guardare con attenzione, e i giornalisti non furono da meno, dietro la facciata dei ristoranti e dei laboratori. Fu scoperto che tra San Donnino, Brozzi e Campi, stavano nascendo bische clandestine, dove correvano decine di milioni per notte fra nuvole di fumo sospetto e traffici tutt’altro che leciti.
Fu scoperto, anche, che il viaggio “della speranza” verso l’Italia e Firenze in particolare, costava circa 8 milioni e che per restituirli i cinesi erano obbligati a lavorare 14 ore al giorno in condizioni pressoché disumane. C’era di mezzo la famosa Triade cinese? Di sicuro c’era un folto gruppo di cinesi che lavorava a più non posso, ed altri, una minoranza, che vivevano alle loro spalle. Erano gli organizzatori del traffico, probabilmente, che viaggiavano su auto dal costo di decine di milioni, ostentavano sicurezza o piuttosto tracotanza, erano visibilmente temuti dai loro connazionali.
Il problema esplose nell’89. E fu un grosso problema. Talmente dura fu la protesta dei quartieri invasi dal “pericolo giallo” che del fenomeno presero a occuparsi anche i grandi giornali del Nord. Per i fiorentini non tardarono ad arrivare le accuse più o meno velate di razzismo, e la gente di Peretola e di Campi si ribellò. Loro erano del tutto disinteressati al colore della pelle e alla forma degli occhi. Quello che li disturbava, e avrebbe disturbato chiunque, era il rumore notturno dei macchinari, l’igiene vilipesa da 10 – 12 persone costrette in un monolocale, le fritture che spandevano nell’aria odori inconsueti e talvolta ammorbanti.
A protestare, a raccogliere firme, erano soprattutto gli artigiani. Che accusavano la comunità cinese di “concorrenza sleale ” e un po’ alla volta erano stati estromessi dal mercato.
A dire il vero, i cinesi erano in apparenza rispettosissimi delle leggi. Iscrizione alla Camera di commercio, permesso di soggiorno, passaporto, tutto era in ordine apparente. Il problema, semmai, era di stabilire a chi realmente corrispondessero quei documenti. Ai fiorentini, poliziotti compresi, in quei primi anni i cinesi sembravano tutti uguali.
Ormai, nella sola Campi, erano più di duemila. Fra Prato e Firenze, a dire poco, erano 5 volte di più. Inutile nascondersi dietro un dito, il problema era diventato esplosivo. La gente di Quaracchi scese per strada. Chiedeva che almeno il silenzio notturno fosse rispettato. Cominciarono i controlli, le ronde notturne che alcuni cittadini si prestarono a fare in nome e per conto della comunità. Alla fine il sindaco firmò un’ordinanza per il rispetto del silenzio notturno. Era di luglio e le finestre aperte moltiplicavano il disagio. Ma si arrivò ad ottobre e pochi o punti l’avevano rispettata.
Qualcuno cominciò a parlare di “pericolo giallo”. Dietro i soliti sorrisi, i cinesi nascondevano tutti lo stesso atteggiamento a lungo andare insopportabile. “Non capisco l’italiano” dicevano a chiunque li avvicinasse. Per loro esisteva solamente il lavoro, anche per i bambini. Che vivevano fra odori di colla, di polli e di anatre attaccati al soffitto, carni messe a seccare assieme ad alghe marine ed altri cibi strani.
Ebbene, cosa usciva dai loro laboratori? Un po’ di tutto, fu dimostrato. Compresi oggetti con stampigliato il marchio di stilisti famosi come Dior o Vuitton. Oggetti falsi, naturalmente. Che poi i senegalesi, una comunità che proprio in quella fine anni Ottanta prese ad affacciarsi nella realtà fiorentina, provvedevano a smerciare ai turisti, con un tappetino steso a terra nelle vie del centro. Eppure, quegli stessi cinesi, quando si trattava di acquistare un negozio, un ristorante, o perchè no un fuori strada, non esitavano a tirar fuori dal portafoglio decine di milioni in contanti.
La gente di Campi e di San Donnino, quando si arrivò agli anni Novanta, si accorse che tutto era cambiato intorno a loro. “Sfrattati da casa nostra” dicevano. “Ci hanno buttati fuori dal quartiere, mentre gli affitti sono aumentati a dismisura.”. Ormai i cinesi producevano di tutto. Dalle fibbie alle borse in finta pelle, dai fiori di carta alle cerniere. Altro che China Town. Firenze, con i cinesi, stava soppiantando l’economia del vicolo di napoletana memoria. Nei “bassi spagnoli” della città partenopea, adesso si commerciava. A produrre ci pensavano i cinesi di Firenze, mentre un traffico di grandi camion collegava quasi ogni giorno le due realtà, facendo la spola verso Napoli.
Fu nel novembre del 1990, che finalmente, la comunità cinese venne allo scoperto. Non poteva più continuare a nascondersi, le proteste erano troppe e troppe frequenti per rinviare ancora un incontro. Lo organizzarono a San Donnino, nei locali di una discoteca. I cinesi si presentarono in forze, e come portavoce elessero una ragazzina di 17 anni, che si chiamava o si faceva chiamare Claudia Tung. La gente della zona urlava “Tornate in Cina sudicioni, ci rubate le case e il lavoro”. Claudia Tung invece, il volto pallidissimo e le labbra tremanti, lesse un breve testo scritto: ” Sono stati fatti tanti errori, anche da parte vostra, gli affitti che paghiamo sono troppo alti, io sono giovane ed i miei amici anche. Siamo diversi dai nostri genitori e disposti a cambiare. Siamo disposti a volervi bene se ci vorrete bene.”
Fu questa frase, dopo 4 ore di discussione a notte alta, a offrire l’unico momento di umanità in una serata da dimenticare. Per il resto si erano confrontati mondi lontanissimi. Anche fra la gente di San Donnino, infatti, c’erano due anime. Coloro che urlavano basta ma non volevano, nè si meritavano, l’accusa di razzisti. E coloro che difendevano i cinesi, ma non si meritavano l’aureola di “testimoni dell’ accoglienza”. Molte delle ragioni dei primi, infatti, erano giuste al di là della razza di chi li disturbava. Loro protestavano contro i cinesi come avrebbero protestato contro chiunque si fosse comportato nello stesso modo.
Fra chi difendeva gli immigrati, d’altra parte, non tutti lo facevano per spirito di solidarietà. Molti traevano vantaggio dagli arrivi. Erano quelli, da ciò l’accusa della ragazzina cinese, che affittavano case e capannoni. Per loro l’invasione cinese era una pacchia.
La pace durò poco, praticamente non cominciò neppure. Le risse diventarono la norma, risse notturne fra giovani locali e gruppi di cinesi. Ci furono feriti, denunce, volanti della polizia costrette a intervenire , anche se per fortuna non si videro armi. A un certo punto il sindaco di Firenze decise di chiudere le aziende che non risultassero in regola a un controllo delle USL. Il sindaco di Campi era invece più “possibilista”. Sosteneva che il problema non erano i cinesi in quanto tali, ma il fatto che fossero troppi in poco spazio. Una teoria che poteva anche essere giusta, ma d’altra parte, chi aveva scelto di vivere a quel modo?.
Il fatto è che i cinesi continuavano ad arrivare, più o meno ufficialmente. Al punto che nel maggio del ’91, a San Donnino, furono contati 2500 presenze asiatiche su neppure 5 mila abitanti. Come poteva sopportare una presenza del genere una comunità abituata ai silenzi della campagna ed ai vantaggi della città vicina? L’ultimo tentativo fu quello di impedire alla gente del luogo di affittare ai cinesi. Ma con quale diritto, e in base a quale legge? La vicenda arrivò fino a Roma. Una riunione si tenne, il 29 gennaio del 1992 al Viminale. Fu spiegato che la comunità cinese di San Donnino ormai uguagliava quella degli italiani. Non esisteva più un artigiano che potesse competere nel settore pelli con i cinesi. Stavano gettando fuori dal quartiere i fiorentini.
La decisione presa in quell’occasione sembrava definitiva. Fu detto: la China Town fiorentina sarà smantellata. Nei fatti non successe nulla.
Qualcosa, per fortuna, aveva fatto il cardinale di Firenze Silvano Piovanelli. Aveva deciso di mandare “in frontiera”, ovvero a fare il parroco nella zona, un prete che prima di diventare tale era stato un sindacalista della Cisl. Si chiamava, e si chiama don Giovanni Momigli, e toccò a lui tentare mediazioni fra la stessa gente della parrocchia. Ma quando si accorse che non era possibile, non esitò ad accusare quanti affittavano ai cinesi a cifre insopportabili. ” Sia chiaro a tutti che il parroco di San Donnino non intende tutelare nessun interesse se non quello dell’intero paese. Ma assieme al parroco anche gli altri devono sforzarsi di capire atteggiamenti diversi ai propri”.
Don Momigli fu il primo a capire che la questione non si poteva risolvere solo con la polizia e i carabinieri e che il mondo politico doveva in qualche modo fare la sua parte.”
Il fatto è che in quei mesi Firenze viveva anche un’altra realtà, molto pesante. Era quella degli zingari, i Rom che si erano accampati nella zona del Poderaccio. A un certo punto anche nei loro confronti erano cominciati atteggiamenti di esplicito rifiuto. Addirittura c’erano state delle risse. “E’ possibile che non ci si renda conto che Firenze non è razzista _ dicevano in quei giorni i cittadini _ ma solo incapace di sopportare, invasioni improvvise con gente che non ha alcuna voglia di integrarsi?
Nel febbraio del ’92, un blitz dei vigili urbani bloccò 30 ditte di cinesi che si erano insediate nell’ex mobilificio Ugolini. Fra donne in lacrime e bambini impauriti, i vigili fecero il loro lavoro. Durante l’estate il blitz fu ripetuto, ma dalla polizia questa volta. E il risultato furono mille cinesi fermati, 30 espulsi. Don Momigli abile tessitore del dialogo, pochi giorni prima aveva detto che per “governare la situazione” occorre anche agire con fermezza. Forse lo avevano preso alla lettera, anche troppo. Sta di fatto che qualcosa cambiò. Dai 3 mila che erano, i cinesi di San Donnino diventarono 800. Ma ormai la gente del luogo era divisa. Si inviavano lettere anonime a chi “speculava sugli affitti ” contro l’interesse di tutti. Venivano affisse nei bar autentiche “liste di proscrizione”. Il danno era fatto e solo don Momigli, con un lavoro incessante di mediazione sarebbe riuscito a ricostruire , un po’ alla volta, un tessuto sociale in un ambiente che era rimasto travolto in dieci anni dalla immigrazione cinese.
Il fatto è che i problemi, pur senza lasciare San Donnino, si erano nel frattempo trasferiti nella vicina Brozzi. E qui, nel ’95, si dovette assistere ad alcuni degli episodi più gravi nel confronto tra fiorentini e comunità cinese. Ci furono raid notturni, con bande di ragazzi all’assalto delle “aziende gialle”, ci furono scontri che solo un po’ alla volta si sono andati attenuando.
Rappresentarono, i cinesi, il primo impatto della città _ o meglio delle sue periferie _ con l’immigrazione. Ma già con l’inizio degli anni Novanta le presenze di extracomunitari si erano moltiplicate. Le razze, le lingue, i paesi di provenienza erano sempre più numerosi.
La comunità senegalese era impegnata sopratutto nel commercio ambulante. Tappeti stesi per terra ma anche vendita per le strade, con qualche paio di calzini e un accendino offerti al primo passante. I Nord africani, marocchini in gran parte, fornivano invece manodopera al mondo del piccolo spaccio di stupefacenti. Manodopera, forse, per la malavita locale che non aveva voglia di sporcarsi le mani ma controllava dall’alto i commerci. Erano poi arrivate le nigeriane, prostitute a basso prezzo, disperate ragazze, rese schiave dai loro protettori, che restavano alle periferie della città. C’erano inoltre le somale, i filippini e i peruviani che sempre più numerosi assistevano gli anziani , specie se non autosufficienti.
Tutte queste comunità avevano i loro luoghi di ritrovo, le loro piazze, i loro bar. E i fiorentini , dalla metà degli anni Novanta ad oggi, hanno imparato a conoscerle e in qualche modo a rispettarle. I problemi, però, arrivarono con gli albanesi nei primi anni Novanta. Erano e sono una realtà difficile. Uomini che per decenni hanno vissuto sotto un regime duro. Molti di loro erano violenti. Molti arrivavano qui con le loro donne da far prostituire. I furti si moltiplicarono. La prostituzione cadde nelle loro mani in breve tempo. E anche la droga, pur lasciando ai marocchini il compito di continuare a svolgere il traffico minuto.
Con la seconda metà degli anni Novanta, arrivarono anche i serbi e i kosovari. I primi, sia pure per un breve periodo, presero in mano gran parte delle attività malavitose locali. Loro decidevano e gli albanesi, pare, eseguivano. Ci furono rapine nelle ville, sequestri, un salto in avanti, nella malavita cittadina che cominciò seriamente a preoccupare.
Intanto, però, altre comunità davano segni di integrazione. Firenze faceva sì che nell’arco di un breve tempo, molti trovassero fra di noi la loro strada.
Si moltiplicarono le iniziative per rendere più semplice l’accoglienza. Per esempio, ogni giorno a Brozzi, gli impiegati del comune incontravano i cinesi alla presenza di un interprete. A Firenze si organizzano e si organizzano giornate per la conoscenza della cultura albanese, o senegalese, o nord africana. Un impegno simile fu rivolto anche ai somali, e perfino ai Rom del Poderaccio. Da provincia con vocazioni internazionali, Firenze diventava un po’ alla volta città multietnica. Non era più la Firenze di una volta, non potrà più esserlo, ma l’importante è che possa creare nuove e costanti armonie , assimilando progressivamente l’arrivo degli extracomunitari.
Gli ultimi dati, che risalgono al 2002, ci dicono che gli extracomunitari residenti _ ma almeno altrettanti sarebbero irregolari _corrispondono a 21.288 unità. In pratica rappresentano il 6 per cento della popolazione totale, circa il 10 se si calcolano quelli che non figurano nelle tabelle ufficiali. Le comunità più numerose provengono nell’ordine dalla Cina, poi dall’Albania, dalle Filippine, dal Marocco, dalla ex Jugoslavia, dal Perù, dalla Romania, dalla Somalia, dallo Sri Lanka. In un anno l’incremento di stranieri è stato del 10 per cento. Crescono i cinesi, i rumeni e gli albanesi. Diminuiscono di qualche unità i somali.
La fascia di età più numerosa, fra gli immigrati, è quella i 18 e i 35 anni. Molti anche i bambini sotto i 14 anni, che rappresentano un 20 per cento del totale. E molti anche i ragazzi nella fascia 14 – 18 anni ( circa 800). Pochi nella fascia di età fra i 50 a e i 65 anni. Pochissimi, il 2 per cento, sono al di sopra di questa soglia.
Nelle nostre scuole, alle materne, ogni 12 iscritti uno è extracomunitario. Alle elementari e alle medie la percentuale cade al 7 per cento. Gli albanesi rappresentano il numero maggiore degli scritti all’università. Le facoltà prescelte sono nell’ordine architettura, medicina, lettere ed economia. Nello scorso anno accademico si sono laureati a Firenze 40 giovani extracomunitari. Al Centro per l’impiego, per cercare un lavoro, sono iscritti 3888 extracomunitari. I contratti stipulati con loro nel 2001 sono stati oltre 5mila, in particolare nell’industria e nei pubblici servizi.
RINGRAZIAMENTI
L’autore ringrazia il Comitato per il 50° della Charter Night, del Lions Club Firenze e in particolare il suo Presidente Aldo Torrini per il sostegno e l’aiuto concesso alla realizzazione dell’opera.
Ringrazia in particolare l’architetto Roberto Lallo che ha curato le ricerche d’archivio, quelle iconografiche ed ha contribuito alla stesura dei testi per la parte dedicata al Lions Club Firenze.
Il Lions Club Firenze ringrazia la PACINI EDITORE di Pisa per l’autorizzazione concessa di pubblicare liberamente sul Sito del Club questo libro edito per conto del Club nel 50° della sua fondazione – 2003.